I sondaggi e gli analisti di entrambi i partiti sono concordi: i repubblicani si avviano a conquistare molti parlamentari, sia alla Camera dei Rappresentanti, sia al Senato.
Alla Camera, dove sono in palio tutti i 435 seggi, il Grand Old Party deve strappare ai democratici 40 deputati per ottenere la maggioranza. Quasi nessuno dubita che ce la farà.
Più complessa la situazione al Senato, che rinnova solo 37 seggi su cento. Per avere la maggioranza, i repubblicani dovrebbero confermare i loro 18 seggi e sottrarne ai democratici 10 su 19. Un' impresa difficile, ma non impossibile.
Anche la sfida per i governatori preoccupa i democratici. L'Asinello rischia di perdere una dozzina di Stati. Tra questi, alcuni furono cruciali due anni fa per l'elezione di Barack Obama: Ohio, Pennsylvania, Iowa, Michigan, Wisconsin, Maine, New Mexico.
E non consola più di tanto il partito l'opportunità di strappare a sua volta 4 o 5 Stati ai repubblicani, tra cui, forse, la California e la Florida.
Al momento, i governatori democratici sono 26; 24 sono invece repubblicani. Tra le 37 poltrone in palio, 19 sono occupate da democratici, 18 da repubblicani.
La crisi "affonda" i democratici
L'economia e l'occupazione sono le principali preoccupazioni degli elettori americani. La crisi economica e finanziaria, la peggiore dalla Grande Depressione degli anni Trenta, non aiuta certo i democratici ad affrontare un'elezione che già in genere tende a penalizzare il partito al potere a Washington.
Mentre la ripresa segna il passo, si diffonde il timore per una disoccupa- zione che resta intorno al 10% e per l'incertezza del futuro. Ma la protesta affonda le sue radici anche nel costoso salvataggio di banche e società finan- ziarie, prime responsabili della crisi.
L'entusiasmo degli americani per Obama, dopo due anni di governo, si è raffred- dato anche per la forte opposizione di gran parte dei cittadini, tra cui molti democratici, alla riforma sanitaria.
Rivendicata dal presidente come una grande vittoria, la riforma è avversata da quasi la metà degli elettori; e i suoi benefici non arriveranno che nel 2014, quando andrà a regime.
Il gradimento per Obama oscilla ormai tra il 43 e il 46%, mentre per il 63% degli americani il Paese ha imboccato la strada sbagliata. Solo il 9%, poi, giudica il conflitto in Afghanistan una priorità: per molti è un nuovo Vietnam.
L'ombra del Tea Party sulle elezioni
La vera novità delle elezioni di medio termine 2010 ha un nome: Tea Party. Con questo movimento, la destra populista ha fatto breccia nell'elettorato americano in tempo di crisi.
Grazie alla loro rivolta contro le élite di Washington, a slogan cari agli elet- tori conservatori (più libero mercato e meno Stato), i Tea Party intercettano il voto dei repubblicani più arrabbiati.
Si richiamano nel nome al Boston Tea Party (l'episodio che nel 1773 diede il via alla rivolta contro la fiscalità imposta dai britannici) e chiedono meno tasse e più limiti a budget, deficit e alle dimensioni del governo.
Sebbene non abbiano un gruppo dirigente nazionale né uno statuto, i Tea Party, nati solo l'anno scorso, sono già stati in grado di condizionare le primarie re- pubblicane per le elezioni di Midterm.
I loro candidati per il Senato hanno vinto in sette Stati, battendo anche avversari appoggiati dai vertici dei repubblicani e creando non pochi imba- razzi al partito dell'Elefante.
Grande sponsor dei Tea Party è Sarah Palin, candidata a vicepresidente con McCain e sconfitta nel 2008 da Obama. Chiede ai candidati repubblicani di condividerne la piattaforma. E il movimento già guarda alle presidenziali del 2012.