di Rodolfo Ruocco
Nel 2004, ai tempi d’oro del Cavaliere, Umberto Scapagnini azzardò una diagnosi singolare: "Berlusconi è tecnicamente quasi immortale". Scapagnini, medico personale dell’allora presidente del Consiglio, diceva di aver messo a punto un elisir straordinario. Grazie a queste cure il Cavaliere “dimostrava 12 anni di meno”.
Berlusconi, dopo 9 anni, non ha problemi di salute, ma è in affanno. Dopo le sconfitte politiche e giudiziarie è in un angolo, ha perso la sua egemonia. Fa fatica anche ad evitare una scissione del PdL, scosso dallo scontro tra “colombe” e “falchi”, le prime guidate da Angelino Alfano e gli altri da Raffaele Fitto.
Il fondatore della Fininvest, di Forza Italia e del PdL dal 1994, per quasi vent’anni, ha dominato sul sistema politico italiano o dal governo o dall’opposizione. Berlusconi, dopo il crollo della Prima Repubblica, è riuscito a riunificare il centrodestra e a portarlo al governo. In 19 anni è stato per quattro volte presidente del Consiglio, lasciando la sua firma sulla fisionomia della Seconda Repubblica maggioritaria e bipolarista, segnata dallo scontro tra il centrosinistra e il centrodestra.
Predicò “la rivoluzione liberale” e la contrapposizione alla “sinistra statalista e illiberale”. Vinse promettendo “meno tasse, meno leggi, meno sindacati” e “più sviluppo”.
Puntò sul leaderismo e sul carisma personale. Issò il suo nome, “Berlusconi presidente”, sulle bandiere del centrodestra e della Lega come candidato alla presidenza del Consiglio. Guidò con pugno di ferro prima Forza Italia e poi il PdL. Il suo “era il partito dell’amore” contro “il partito dell’odio” della sinistra. Personalizzò la politica, enfatizzò il suo ruolo carismatico di guida, grazie anche al sistema elettorale maggioritario. “Anch’io ho scritto le tavole della legge come Napoleone e Giustiniano”, proclamò nell’aprile del 2001, tra il serio e il faceto.
E fece scuola. Il leaderismo fu preso a modello anche da tutti gli altri partiti italiani della Seconda Repubblica, esclusa la sinistra, in forte crisi di identità, di programmi e di leadership. Solo Romano Prodi, a capo del centrosinistra, riuscì a sconfiggerlo due volte (nel 1996 e del 2006).
Ma il leader del centrodestra non riuscì a mantenere molte promesse fatte al suo elettorato (in testa il taglio delle tasse e la crescita economica), si impantanò in molte ‘leggi ad personam’ sulla giustizia. È seguita la sconfitta politica: prima nel passaggio di mano al governo tecnico di Monti (novembre 2011), poi nelle elezioni politiche dello scorso febbraio (è morto il bipolarismo ed è nato il tripolarismo con il trionfo del M5S di Beppe Grillo) e quindi nel ripensamento sul voto di sfiducia al governo di larghe intese guidato da Enrico Letta, lo scorso 2 ottobre (improvvisamente è passato dal no al sì alla fiducia).
Le sconfitte politiche e giudiziarie (la condanna della Cassazione per frode fiscale apre la porta alla sua decadenza da senatore) sono un colpo micidiale alla sua leadership e al modello leaderista introdotto dal Cavaliere, il leaderismo con il quale ha guidato il governo, il centrodestra e il partito. Ha retto con pugno di ferro esecutivo, coalizione e partito. “È lui il capo”, diceva Umberto Bossi, anche lui una volta leader carismatico della Lega.
La crisi di Berlusconi è anche quella del modello nel quale è centrale la figura del capo. Non a caso, oltre a Berlusconi, sono in difficoltà tutti i partiti leaderistici. Sono scomparsi o in affanno molti leader italiani: Bossi, Fini, Di Pietro, Casini, Monti, Ingroia. E, prima ancora, Segni e Dini. Chi, invece, gode ancora buona salute è Grillo che governa i cinquestelle dal suo blog su internet e a colpi di espulsione dei dissidenti.
In questi anni il Parlamento, anche a causa del leaderismo, ha perso la sua antica centralità politica. Enrico Letta sembra voler invertire questa tendenza. “In ogni passaggio anche delicato o doloroso ho coinvolto il Senato e la Camera. Ho risposto dell’operato del governo io stesso in Parlamento 15 volte”, ha precisato il presidente del Consiglio chiedendo la fiducia bis per l’esecutivo messo in discussione dalle dimissioni dei ministri del PdL. Ha chiosato: “Il governo è nato in Parlamento e se deve morire, deve morire in Parlamento, alla luce del sole”. L’esecutivo, invece, ha superato la sfida e Berlusconi è uscito sconfitto dal duello. Letta ha esultato: “È una giornata storica”. Ma anche il presidente del Consiglio ha i suoi problemi. Alle sue spalle c’è il Pd, il suo partito, lacerato dallo scontro congressuale: molti ex Ds non vogliono Matteo Renzi, di matrice Dc come Letta.