di Maurizio Iorio
(maurizio.iorio@rai.it)
Imany – The shape of broken heart (Warner Music)
Per essere bella, Imany è proprio bella. Oltre all’armonia delle forme, Madre Natura, non contenta dell’omaggio fisico, le ha anche regalato una gran bella voce (a chi troppo..). E così questa non più giovanissima ex-modella, stanca di “fare l’appendiabiti”, s’ è messa a cercare una via alternativa alla passerella, dove l’unica abilità richiesta è quella di non scapicollarsi dai tacchi 15. Imany (in Swahili significa “fede”), nome d’arte di Nadia Mladjao, vede la luce nel 1979 a Marsiglia da genitori originari delle Isole Comore, in Africa. Dopo aver macinato chilometri sfilando per le griffe dell’alta moda, a 26 anni abbandona il mondo delle stoffe e delle privazioni alimentari per inseguire il sogno che aveva da bambina: cantare. Piomba a Parigi con un cd autoprodotto e comincia a frequentare i club notturni, anche quelli dei bassifondi (quando si dice ricominciare da zero..), frequentati negli anni ’50 e ’60 dai jazzisti americani in trasferta. Sul suo altarino personale Billie Holiday, Nina Simone, Tracy Chapman, con la quale condivide più di una affinità sonora. Durante il tour europeo dell’americana Angie Stone, per la quale apre le serate, si materializza il produttore giusto, come in ogni favola che si rispetti. Lui è il senegalese Malick N’Diaye, che la segue nella realizzazione del suo album d’esordio, “Shape of broken heart”, immediatamente acclamato dalla critica e con un buon successo di vendite. Siano nel 2011. A distanza di 2 anni l’album è stato promosso anche in Italia, e il singolo “Will you never know” è diventato il tormentone dell’estate, rischiando di ammorbamento da sovraesposizione. In ogni caso una scommessa vincente, perché i tormentoni estivi sono in genere robaccia dance per decerebrati, invece qui siamo in presenza di un pregevole brano folk-soul, malinconico e sensuale. Che è poi il leit-motiv dell’album. L’aver fatto da entertainer nei club ne ha forgiato la voce e l’incedere, notturno e bluesy quanto basta. “Seat with me” è un piccolo gioiello (“Siedi qui con me, sulla mia mano/ sul mio corpo, a guardare le stelle che ci proteggono/ da così lontano”), arrangiato per sottrazione, pochi strumenti, appena accennati, per non disturbare. Lo stesso dicasi per la title-track, una chitarra acustica e altri piccoli contrappunti sonori, dove l’accostamento con Tracy Chapman viene talmente spontaneo da poterle sovrapporre senza temere scostamenti di sorta. (“Africa, la forma di un cuore infranto, il cuore di una terra distrutta/caduta dal paradiso dritta all’inferno/, ora i tuoi figli sono scomparsi /e il vento soffia/ i bambini vagano/seduti sul bordo della strada a guardare tutte le barche/). E ancora, perché no?, “I lost my keys”, dal sapore marcatamente africano, con i cori in swahili, ci sta bene anche una lacrimuccia. “Take care” è un affresco d’amore (“prenditi cura di colui che ami/ prenditi cura di colui che ha bisogno”), con le voci bianche in sottofondo. In sostanza, una bella scoperta, per usare un’espressione fra le più abusate. Album intenso e avvolgente, vicino a madre Africa, ma dall’evidente paternità americana, con una punta di grandeur. Un mix che potrebbe riservare ulteriori, delicatissime sorprese.
Regina Spektor – What we say from the cheap seats (Sire)
Se Imany ha nella bellezza un atout estetico da far valere (ma se non c’hai la voce non vai da nessuna parte), anche questa giovanottella nata a Mosca da genitori ebrei non scherza. Carnagione bianco latte e occhio blu mare sono il biglietto di presentazione. E poi c’è “What we say from the cheap seats”, che disorienta l’abitudine giornalistica alla catalogazione. Che, come dice qualcuno, è meglio lasciarla agli archivisti. Questo per dire che è difficile inquadrare la musica di Regina Spektor in un genere definito e far capire al lettore in che parte del mondo (musicale) siamo. La ragazza è cresciuta nel Bronx, si è diplomata in pianoforte al conservatorio, ha visto la luce dopo aver ascoltato Billie Holiday, e s’è fiondata sul blues e sul jazz. Siamo nel 2001. In tour con gente come gli Strokes e Kings of lion, tanto per imparare il mestiere. Poi 4 album, senza ottenere consensi adeguati alla bisogna. Nel 2012 esce questo piccolo/grande e incatalogabile gioiello, nel quale la Spektor ondeggia fra i generi come una bandiera al vento. Quando uno pensa di aver individuato la direzione, il vento cambia, e bisogna capire dove ci porterà (“le vent nous porterà”, Noir Desire). A volte sembra di essere nella Germania di Marlene Dietrich, a volte nel pop di Elton John, a volte in uno spettacolo di cabaret. Un album fatto di convergenze e divergenze, di armonie e disarmonie, di ortodossia ed eresia. Spiritoso, divertente, politicamente scorretto, imprevedibile, minimalista e pieno di spigoli. A volte recitato. L’impronta sonora è quella del pianoforte, che fa da contrappunto nervoso a tutti i brani. Ma questo lavoro non è la colonna sonora dei nervi scoperti. Ascoltate la poesia leggera e malinconica di “Firewood”, che molto deve alla Lady of the canyon, Joni MItchell. (“Il piano non è legna da ardere/ loro provano a ricordare ma poi lo dimenticano ancora/che il cuore batte negli alberi come un valzer/e niente può farti smettere di ballare… ama quello che hai/ riceverai amore/non stai morendo/ tutti sanno che amerai/anche se non c’è cura contro il pianto). Semplicemente meravigliosa.