di Francesco Chyurlia
(francesco.chyurlia@rai.it)
Il copione è sempre lo stesso. La crisi sta abbandonando il Vecchio Continente per lasciare il passo alla ripresa economica. Ma per l’Italia è vero solo in parte. La crescita stenta a ritornare ai livelli del 2007. Abbiamo perso 8 punti di Pil e chissà quando riusciremo a recuperarli in termini di ricchezza pro capite e di consumi. C’è chi addebita questi ritardi all’incertezza politica e alla conseguente perdita di credibilità. Siamo ancora poco credibili anche nella nostra solvibilità del debito. Non a caso recentemente siamo stati sorpassati dalla Spagna nel differenziale tra Btp e Bonos in rapporto con i Bund tedeschi: lo spread, tanto per capirci, è diventato più basso per i nostri cugini iberici. Ma per l’economista di Harvard, Alberto Alesina, le cose non sono complicate e non riguardano solo le nostre difficoltà politiche.
Prima di tutto l’Italia cresceva pochissimo anche prima del 2007. Quindi la speranza è che riprenda un trend più forte di quello del 2007. Mancano però tante cose: in Italia c’è una pressione fiscale molto elevata rispetto ai nostri partner, c’è un mercato del lavoro con una riforma imperfetta e con costi burocratici e per fare business molto più alti che altrove. E tutto ciò riduce la nostra competitività rispetto agli altri partner. Poi l’instabilità e l’incertezza politica fanno sì che i problemi strutturali non si affrontino e quindi peggiorino.
L’Europa ha recentemente messo in guardia l’Italia dal rischio di non riuscire a mantenere il rapporto tra deficit e Pil dentro il parametro del 3% a causa dell’abolizione dell’Imu sulla prima casa, dal rinvio dell’aumento dell’Iva dal 21 a 22% e dalla restituzione dei debiti alle imprese: è un rischio reale?
Il problema del 3% è dovuto al fatto che l’Italia non ha costruito una credibilità verso l’Europa per cui non può dire alla Comunità di essere in un momento difficile e di aver bisogno di ridurre il peso fiscale pur accompagnandolo ad una riduzione di spese e a riforme strutturali. Siccome questa credibilità l’Italia l’ha persa, non è in grado di far capire ai partner che sforare il 3% del deficit, nel primo anno di un piano poliennale di riforme, non sarebbe un dramma. Questo è il motivo per cui l’Europa è preoccupata di farci restare dentro questo parametro.
Così l’Italia non ha molte frecce al suo arco…
L’Italia non ha fatto altro in questi anni che aumentare le imposte che hanno un effetto negativo sulla crescita.
Professore, lei ha detto che la prossima nazione che rischia di essere colpita dal colpo di coda della crisi è la Francia: E’ così?
La Francia ha fatto relativamente poco e ha una buona spesa pubblica, la più alta d’Europa, e una tassazione tra le più alte dell’Unione. Il governo di Hollande non ha fatto nessuna delle riforme strutturali di cui ha parlato. La crescita in Francia stava rallentando ed era poco sopra lo zero. Credo che la Francia stia navigando a vista e non abbia un progetto di riforme adeguato alla situazione di bassa crescita.
In Italia il sistema industriale è fragile e poco attrezzato contro lunghi periodi crisi. Il caso degli stabilimenti di Riva è solo l’ultimo dei tasselli di un mosaico di imprese in difficoltà. C’è bisogno di una politica industriale più rigorosa?
Non credo che in Italia ci sia bisogno di una politica industriale dirigista. Quello che serve sono costi più bassi, una burocrazia e una regolamentazione più snelle.
Il nostro sistema di imprese è da tempo assai vulnerabile alle scalate di multinazionali estere: la Francia ad esempio ha fatto spesso shopping dentro i nostri confini.
In generale non c’è nulla di male se un’impresa estera scali un’impresa italiana, in un contesto di Comunità europea, se poi però anche un’impresa italiana possa e riesca a scalare un’impresa estera. Se il mercato diventa più integrato non c’è nulla di male. Se ci sono più scambi di merci, di capitali o di imprese è solo un aspetto positivo. Se però le imprese italiane non sono sufficientemente competitive da poter acquisire imprese estere, allora è un problema.