di Rita Piccolini
Non è un superfluo rito auto-celebrativo che si ripete stancamente, ma un grido d’allarme: darsi volontariamente la morte è un comportamento relativo solo alla razza umana, che nasce in contesti sociali e culturali sempre più drammatici.
La genetica c’entra poco, o solo marginalmente. Il suicidio è nella storia, poco nella natura. I dati inquietano: ogni anno nel mondo si danno la morte un milione di persone (14,5 soggetti su 100 mila abitanti). Due morti per scelta ogni minuto.
In molti Paesi industrializzati il suicidio può essere la seconda o terza causa di morte tra gli adolescenti e i giovani adulti. Ma la fascia di persone coinvolte si allarga sempre di più e comprende un arco fino ai 65 anni. In Italia si registra un 12% di casi in più rispetto a soli sei o sette anni fa. Il suicidio è comunque la tredicesima causa di morte in tutto il pianeta. Accanto alle vittime ci sono inoltre svariati milioni di tentativi falliti, senza contare i milioni di persone vittime a loro volta in quanto familiari o amici del suicida.
Cosa fare contro tanto dolore? Prevenirlo. Come? Parlandone. Sembra banale ma non lo è, perché è il pregiudizio il peggior nemico di chi soffre del dolore dell’anima e della mente. Non a caso il tema proposto quest’anno dal Servizio per la Prevenzione del Suicidio dell’Azienda Ospedaliera Sant’Andrea di Roma, diretto dal professor Maurizio Pompili, referente italiano della Iasp, è :”Stigma:un grande ostacolo…” . I
l marchio negativo associato a chi tenta il suicidio o lo porta a compimento è paralizzante, crea emarginazione, dilaga come una nube tossica sulle famiglie delle vittime, impedisce il confronto e il dialogo che sono alla base della prevenzione.”Prevenire il suicidio è facile- dice il professor Paolo Girardi, ordinario di Psichiatria della Sapienza di Roma- non è come per il cancro. Basta parlarne”. Ancora una volta sono i dati a illuminare. Su dieci persone che pensano a una soluzione estrema nove ne vengono salvate se ascoltate.
Il 45% di chi sceglie il suicidio, nei giorni precedenti alla tragedia si è rivolto a un medico che non ha capito. Non ha saputo ascoltare né cogliere i segnali, che ci sono e vanno colti, dai medici certamente, ma anche e soprattutto dalle famiglie e nelle scuole, dove il numero dei suicidi tra gli adolescenti è in continua ascesa.
Se i fattori centrali che alimentano lo stigma sono l’ignoranza, la paura e l’ostilità, allora, spiega il professor Pompili, “gli antidoti possono essere l’informazione, la rassicurazione ed efficaci campagne anti-discriminazione”. Il suicidio è un problema complesso, non ascrivibile a una sola causa specifica, ma è il risultato di una interazione di fattori biologici, genetici, psicologici, sociali, culturali e ambientali.
C’è tanta confusione in materia, tanti luoghi comuni e miti da sfatare. Tra questi, tra i più diffusi, il convincimento che le persone a rischio di suicidio raramente ne parlino. E’esattamente il contrario: parlare del suicidio, così come l’isolamento dalla famiglia e dagli amici, sono segnali da non sottovalutare. Ce ne sono molti altri, come trascurare all’improvviso l’aspetto fisico e l’igiene, alternare momenti di depressione a euforia inspiegabile, disfarsi di cose care, esprimere la convinzione che la vita non abbia senso né speranza.
Studi riportano che almeno due terzi delle persone che scelgono il suicidio avevano espresso l’intenzione di metterlo in atto. Non è vero inoltre che gli aspiranti suicidi siano determinati a morire, sono al contrario indecisi e un segnale di attenzione li potrebbe salvare. Un altro mito da sfatare è quello che chi compie suicidio sia una persona psicotica. Lo studio di centinaia di casi indica invece che, sebbene la persona suicida sia molto infelice, non necessariamente è malata mentale.
Importante è poi non banalizzare. Alcune importanti associazioni americane hanno elaborato delle linee guida per supportare i mass media nella trattazione e divulgazione delle notizie sui casi di suicidio, al fine di ridurre inesattezze, esagerazioni e false credenze.
Non c’è una sola causa a determinare la tragica scelta ma una pianificazione a volte lunga, in cui si prendono in considerazione diverse opzioni, fino a quando il dolore diventa insopportabile e i suicidio appare come l’unica scelta possibile. Non un brutto voto a scuola, o la derisione dei compagni, no la separazione dei genitori o tra i coniugi o i problemi economici, ma la mancanza di speranza, l’incapacità di trovare la via d’uscita e una sofferenza psichica incontenibile.
Monsignor Manto, direttore del Centro per la pastorale Sanitaria del Vicariato di Roma esorta i giornalisti a informarsi per informare, a non banalizzare il disagio, a raccontare senza sensazionalismi, senza cercare spiegazioni razionali e riduttive a ciò che è frutto di grandissima sofferenza. E la sofferenza va rispettata senza alimentare pregiudizi pericolosi.