Venezia 70


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Il Gra di Rosi, strada di storie

Fuori concorso il Walesa di Wajda franco_rosi_296

di Sandro Calice

“Sacro GRA”, il documentario di Gianfranco Rosi sul Grande Raccordo Anulare di Roma, è l’ultimo dei film italiani in concorso alla 70ma Mostra del cinema di Venezia. Gli altri film in competizione della giornata sono “Stray Dogs” di Tsai Ming Liang e “La jalousie” di Philippe Garrel.

Fuori concorso, invece, riflettori puntati su Andrzej Wajda con “Walesa. Man of Hope”. Wajda (“I dannati di Varsavia”, “L’uomo di ferro”, “Katyn”), 87 anni, quattro nomination agli Oscar e numerosi premi, dice che “Walesa è il soggetto più difficile da me affrontato in 55 anni di carriera cinematografica. Non è stato facile trovare la giusta misura tra i materiali di repertorio e la fiction per rendere un personaggio tanto straordinario d'aver cambiato il mondo intero”. Il film, attraverso le domande di Oriana Fallaci (Maria Rosaria Omaggio), ripercorre la vita dell’elettricista diventato Presidente, attraversando 50 anni di storia della Polonia. “Ho ammirato Walesa - confessa il regista - dal primo istante in cui l'ho conosciuto durante i colloqui tra Solidarnosc e il comitato di governo. Ho cercato di mostrare oltre alla dimensione psicologica e 'locale' il contesto internazionale della sua ascesa. Vorrei che il film raggiungesse i più giovani, perché Lech è un buon esempio di come essi possano partecipare alla nostra vita politica”.

Venerdì 6 settembre l’ultimo film in concorso è “Es-stouh (Les terrasses)” di Merzak Allouache, ma il programma delle proiezioni fuori concorso offre due lavori fortemente consigliati: il documentario di Ettore Scola “Che strano chiamarsi Federico – Scola racconta Fellini” e il film di Lee Sang-il “Unforgiven”, remake de “Gli spietati” di Clint Eastwood.

SACRO GRA

di Gianfranco Rosi, Italia-Francia 2013, documentario (Officine UBU)
Fotografia di Gianfranco Rosi
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C’è un anguillaro, romano di sette generazioni, che vive sul Tevere navigando, pescando e regalando pezzi della sua popolare saggezza. C’è un botanico che conduce una lotta solitaria e un po’ magica a base di tecnologia e pozioni contro il terribile punteruolo rosso che divora le sue palme. C’è un barelliere del 118 che salva vite ogni notte, trovando anche il tempo di consolare un’anziana donna malata. C’è il nobile piemontese che vive in un monolocale con sua figlia laureanda e che discute di tutto con assoluta eleganza. C’è un principe che fa ginnastica col sigaro in bocca e che vive in un piccolo castello che affitta per feste, compleanni e fotoromanzi. Sono i pezzi di umanità sconosciuta che vivono ai bordi del Grande Raccordo Anulare di Roma, 68 chilometri di lunghezza, diametro medio di 21 chilometri, un viaggio che è un percorso circolare attraverso storie uniche e a volte incredibili.

Gianfranco Rosi è uno dei più grandi documentaristi italiani. Nel 2008 presenta il suo primo lungometraggio, “Below Sea Level”, il risultato di 4 anni vissuti nel deserto californiano per ottenere la fiducia di una famosa comunità di homeless. Un lavoro che ha ottenuto numerosi premi, come il successivo, “El Sicario – Room 164”, lo sconvolgente monologo di un ex killer del narcotraffico. “Sacro GRA” nasce da un’idea dell’urbanista Nicolò Bassetti e deve molto anche a Renato Nicolini, che nel suo saggio “Una macchina celibe” parla del GRA come di “un’opera eccentrica, totalmente fine a se stessa, che maschera e nasconde le contraddizioni della città”. Il lavoro sul documentario che racconta il Grande Raccordo, progettato nel dopoguerra dall’ingegnere e direttore dell’Anas Eugenio Gra (l’acronimo fu inventato a partire dal suo cognome), è durato circa tre anni. Quasi a voler sottolineare il fatto che il GRA “viva” di vita propria, la città di Roma non appare mai. “La crisi del nostro Paese – dice il regista – è soprattutto d'identità e il fatto che ci si staccasse da Roma vuole dimostrare che nel Gra c'è un futuro possibile dove si aggirano personaggi pieni di umanità. Si è voluto uscire dal pantano di Roma, una città mummificata, nella periferia dove si possono ancora raccontare delle storie con tessuti di umanità fortissime”. Un bel documentario, dove senza didascalie la macchina da presa entra nel mondo di questi personaggi, che l’accettano come un’amica alla quale raccontano la loro vita.

“Stray dogs” di Tsai Ming-liang, Leone d’Oro a Venezia nel 1994 con “Vive l’amour”, è la storia di un uomo, un buono a nulla, che vive con i due figli piccoli alla periferia di Taipei. Fa lavoretti di fortuna, mentre i bambini elemosinano cibo nei supermercati, si lavano nei bagni pubblici e vivono in un edificio abbandonato senza luce né acqua. Finché non arriva una donna. Come spiega il regista, “il mio cinema è così, vede la macchina da presa seguire un personaggio che poi si trasforma, fa un percorso. E noi riusciamo a vedere questo percorso proprio perché è lento. A volte vorrei essere ancora più lento, per me la lentezza è una cosa molto bella”. “Stray dogs” è quello che banalmente si definisce un film da festival, un cinema che esplora linguaggi e modi non convenzionali, una pellicola che potrebbe anche prendere qualche premio. Però siete avvertiti: quando il regista parla di “percorso lento”, vuol dire che sono 2 ore e venti di una serie di inquadrature fisse, alcune lunghe più di dieci minuti. Per usare un eufemismo, non è il nostro preferito.

“La Jalousie” è un pezzo romanzato della vita del regista Philippe Garrel, Leone d’Argento a Venezia nel 1991 con “J’entends plus la guitare”. Il personaggio principale (nella realtà Louis Garrel, figlio del regista) è il padre del regista, che da giovane ebbe una vita simile. E’ la storia di un trentenne attore precario che vive in un appartamento con la donna che ama, attrice disoccupata. L’uomo ha una figlia da un’altra donna che ha abbandonato. La mancanza di lavoro e di soldi, nonostante l’amore e i sogni comuni, finirà per minare la vita della coppia, con conseguenze drammatiche. Figlio della Nouvelle Vague, Garrel sostanzialmente non si distacca da quei canoni. Il film però risulta troppo cerebrale e attraversa drammi ed emozioni senza riuscire a coinvolgere.