di Sandro Calice
L’Italia in crisi e dei precari vista con l’occhio di Amelio e la faccia di Albanese ne “L’intrepido”, l’America secondo Donald Rumsfeld nel documentario “The unknown known” di Errol Morris, la Germania della Prima Guerra Mondiale nel melò di Patrice Leconte “Une promesse”, fuori concorso. Questo il cartellone di mercoledì alla Mostra del cinema di Venezia.
Momento di colore, letteralmente dipinto sul corpo, con le Femen, che in topless e con corone di fiori in testa si sono fatte fotografare al photocall con la regista Kitty Green, lei però vestita, per sostenere il suo film, il documentario presentato fuori concorso “Ukraine is not a brothel”, che racconta i retroscena sul loro movimento femminista.
Il 5 settembre è la volta del terzo italiano in competizione, Gianfranco Rosi con il documentario “Sacro GRA”. Gli altri film in concorso sono “Stray Dogs” di Tsai Ming Liang e “La jalousie” di Philippe Garrel. Fuori concorso, Andrzej Wajda con “Walesa. Man of Hope”.
L’INTREPIDO
di Gianni Amelio, Italia 2013, drammatico (01 Distribution)
Fotografia di Luca Bigazzi
con Antonio Albanese, Livia Rossi, Gabriele Rendina, Alfonso Santagata, Sandra Ceccarelli.
Nonostante tutto, Antonio Pane sorride, è un ottimista di natura. Non ha un lavoro, ma ogni giorno ha qualcosa da fare, perché lui è bravo con le mani e fa il “rimpiazzo” professionista, quello che sostituisce anche solo per un paio d’ore chiunque debba assentarsi per qualsiasi ragione dal suo posto di lavoro, di qualunque lavoro si tratti. Antonio è separato e ha un figlio di 20 anni, che ama profondamente e che ha talento per la musica, un figlio con una grande malinconia dentro. Ma ancora più grande è l’inquietudine di Lucia, la ragazza che Antonio conosce per caso a un concorso pubblico. Anche quando non ha nulla, Antonio chiede sempre a tutti: “Posso fare qualcosa per te?”. Ma nemmeno lui può aggiustare tutto.
Amelio, l’ultimo regista italiano ad aver vinto il Leone d’Oro nel 1998 con “Così ridevano”, parla de “L'intrepido” come di “un inno alla dignità dell’uomo, non volevo fare un film di denuncia sociale o piangermi addosso. Il cinema è fantasia, anche se qualche spunto dalla realtà lo abbiamo preso, non vorrei che domani qualcuno iniziasse a organizzare rimpiazzi”. Il regista e Albanese si inseguono da anni per lavorare insieme, e il personaggio del film è stato ricamato su misura per l’attore: un eroe della strada, a suo modo felice, che si accontenta di poco, anche candido, un po’ Charlot, con un grande rigore morale, che preferisce perdere tutto piuttosto che accettare di essere corrotto. Il titolo, racconta Amelio, rappresenta il film anche rammentando quei fumetti che leggeva da ragazzo, dove lui era convinto di leggere storie reali e dove “si aspettava ogni settimana di leggere il seguito per la necessità di un lieto fine”. Questo per sottolineare di non aver voluto fare un film realista, ma un po’ paradossale e sognante. Certo è che il ritratto del Paese e dei ragazzi che ne viene fuori, nonostante il tenero umorismo di Albanese, mette una profonda malinconia. E il film, nel complesso (e lo diciamo con dispiacere, visto l’affetto per Amelio), si regge quasi completamente sulle spalle del bravo protagonista, con una bella storia di base, ma una sceneggiatura spesso deludente e i giovani attori non proprio all’altezza.
Il documentario di Errol Morris “The unknown known” è probabilmente una delle cose peggiori viste alla Mostra finora. E non perché sia stilisticamente “brutto”: Morris dall’alto dei suoi numerosi premi, tra cui l’Oscar per “The fog of war”, confeziona un prodotto essenziale ma impeccabile. Il punto è che è un documentario inutile, nel senso che non svela retroscena particolarmente significativi e potrebbe risultare addirittura “agiografico” nei confronti di uno dei peggiori guerrafondai della storia americana contemporanea. Vediamo un Rumsfeld scrittore\attore che legge una serie di “fiocchi di neve”, le migliaia di bigliettini scritti a macchina con i quali il due volte segretario alla Difesa del governo Usa usava appuntare i suoi pensieri per comunicarli ai suoi colleghi e collaboratori (una sorta di “pizzini” istituzionali). Ci sono gli ultimi 50 anni della storia americana, fino a oggi, e mai un’autocritica, un dubbio, al massimo un paio di domande – per così dire – scomode di Morris. Un uomo che si considera quasi infallibile e che fa il filosofo e il simpatico a seconda dei casi. Non ne sentivamo davvero il bisogno.
Il film fuori concorso “Une promesse” di Patrice Leconte, tratto dal romanzo “Viaggio nel passato” di Stefan Zweig, non ha particolarmente emozionato, anzi. Racconta la storia di un giovane chimico di umili origini che viene assunto in un’acciaieria nella Germania del 1912. Guadagna subito i favori del proprietario, che lo introduce nella sua casa dove il giovane si innamorerà di sua moglie. Solo quando il vecchio proprietario decide di mandarlo per due anni in Messico a seguire gli affari dell’azienda, la giovane moglie gli dichiarerà il suo amore e gli prometterà di aspettarlo fino al suo ritorno. Il mondo però è alla vigilia della Grande Guerra. Leconte (“Ridicule”, “L’uomo del treno”) ci aveva abituato a cose migliori. ”Una promessa”, comunque molto ben recitato, è un dramma sentimentale un po’ soporifero e senza particolari trovate.