di Maurizio Iorio
(maurizio.iorio@rai.it)
The Beach Boys – Live The 50th anniversary tour (Capitol)
Fu tutta colpa di un dentifricio, nei primi anni ’70. All’epoca c’era Carosello, l’insieme di siparietti pubblicitari che segnava lo spartiacque fra la veglia ed il sonno dei bambini. Lo spot (ma è riduttivo chiamarlo così) del dentifricio che sbiancava i denti come la candeggina mostrava solo immagini evocative di una gioventù benestante, figlia del boom economico, intenta solo a sciare, ballare, cavalcare, surfare. La colonna sonora era “Barbara Ann”, una canzone dei Regents, del 1961, ripresa e portata al successo dai Beach Boys, quattro anni più tardi. Una canzone quanto mai appropriata, dato che la band dei fratelli Wilson, l’alternativa americana ai Beatles, era la pubblicità vivente del disimpegno dei baby boomers: musica, auto sportive, divertimento (“Fun fun fun”), spiagge, bikini, belle ragazze (“California girls”), surf. I Beach Boys (basta la parola) furono i portabandiera di questo non-movimento, che non combatteva certo la battaglia per i diritti civili di Joan Baez e Bob Dylan. I soldati americani morivano in Vietnam, ma a Los Angeles si surfava (che poi era quello che faceva il colonnello Duvall/William “Bill Kilgore in “Apocalypse Now”) . I Beach Boys, anzi i tre fratelli Brian, Carl e Dennis Wilson, fusero le armonie dei gruppi vocali degli anni ’50 con i riff di chitarra alla Chuck Berry. Diventarono così i beniamini dei figli della borghesia bianca, che vedeva nel rock’n roll una musica criminale e/o proletaria. Melodie eteree e celestiali, falsetti e contro falsetti, testi adolescenziali, voglia di vivere e sano divertimento. Un pacchetto vincente, che vendette dischi a carrettate. Nessuno si accorse, all’epoca, che Brian Wilson, il vero deus ex-machina della band, era un compositore geniale, e che le sue canzoni non avevano nulla da invidiare a quelle dei più famosi cugini d’Oltreoceano. Troppo lunga la bio di una band che ha 50 anni di storia sulle spalle (e due decessi), per affrontarla in questa sede. I Beach Boys lo scorso anno hanno affrontato un lungo tour mondiale per celebrare il proprio cinquantenario , la cui registrazione è adesso disponibile su un doppio cd, 41 canzoni. Nel concerto di Londra ne inanellarono ben 60, tutte di tre-minuti-tre. Già dall’apertura, “Do it again”, si intuisce che siamo nell’età dell’oro del rock. Impasti vocali ancora perfetti, nonostante le corde vocali appassite, armonie di gran classe, suono impeccabile, band precisa come un orologio svizzero, e un repertorio di classici da collezione: “Surfin’ Usa, Barbara Ann, Good vibrations, Fun fun fun, I get around , Sail on sailor, Pet sounds”. In fondo, è un greatest hits, niente che non si conosca già. Ma i nuovi suoni, le registrazioni digitali, gli arrangiamenti rinnovati hanno raschiato via la crosta da un quadro ingiallito dal tempo. Portando di nuovo alla luce i colori originali.
Marshall Tucker band – Live from Spartanburg (Shout)
Tutte le principali band del rock sudista sono state perseguitate dalla sfiga, che le ha colpite duramente senza possibilità di appello. Gli Allman Brothers, i Lynyrd Skynyrd, gli Outlaws, e la Mashall Tucher band hanno pagato un duro tributo di sangue al Patreterno, che ha richiamato a sé, prematuramente, molti dei loro musicisti, forse perché peccatori indefessi, o troppo razzisti, vai a sapere. Anche la Marshall Tucker, originaria si Spartamburg, South Carolina, ha perso due dei membri fondatori, i fratelli Toy e Tommy Caldwell, oltre al chitarrista George McCorkle. La band si è ormai persa nelle terre del sud, suona nei raduni patriottici e forse anche col cappuccio del Ku Klux Klan. L’anno scorso hanno chiuso la campagna per le presidenziali per Mitt Romney, tanto per capire da che parte si collocano. D’altronde i Lynyrd, durante i concerti, esponevano la bandiera confederata. Detto questo, la Marshall ha appena pubblicato un album dal vivo, “ “Live! From Spartanburg”, ma la registrazione risale ad un tour del 1995, quando in formazione c’era ancora McCorkle. Gli altri reduci della line-up originaria erano il vocalist Doug Cray, il batterista Paul Riddle, il sax Jerry Eubanks. Oltre ad una lunga serie di ospiti della zona: Charlie Daniels, i chitarristi dei Lynyrd Swanlad e Thomasson (anche loro passati a miglior vita), Butch Trucks e Jiaimoe, rispettivamente batterista e percussionista degli Allman Bros. Una specie di convegno di sopravvissuti, viste le dipartite premature. Detto questo, bisogna sgombrare il campo da facili ironie: i reduci sanno ancora come si tiene una chitarra in mano e, forti un notevole repertorio musicale e di un bagaglio tecnico invidiabile, riescono a ancora a garantire una bella qualità musicale. Rock, blues, boogie, ampie divagazioni country e jazz,, insomma una rx panoramica sulla musica che domina nelle music-hall, nei rodei e negli happening dei riders borchiati con pargoli al seguito. Nonostante la mancanza dei fratelli Caldwell, questo live non ha nulla da invidiare a quelli dei bei tempi, anche perché la musica è fondamentalmente la stessa, e il cantante Doug Gray, un litro di bourbon solo per schiarirsi la voce, regge ancora bene il fronte del palco. “Searchin’ for a Raimbov”, This ‘ol cowboy”, Heard it a love song”, “24 hours at a time” hanno il ritmo di una vaporiera lanciata contro il vento. Sbuffano perfino.