Musica - i consigli della settimana


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Il club delle rockeuse

Nuovi cd per Annie Keating e Patty Giuffin

di Maurizio Iorio
(maurizio.iorio@rai.it)  

Il già folto manipolo delle rockeuse lievita di giorno in giorno, segno inequivocabile che l’universo femminile si sta radicando sempre più in quel territorio di frontiera che è sempre stato ad esclusivo appannaggio maschile (salvo le classiche eccezioni che confermano la regola). Per ultime, ma non ultime, iscriviamo all’albo di categoria Anne Keating e Patty Griffin, due signore d’America non proprio novelline, ma talentuose abbastanza da meritare un posto fra i soci del club.

Annie Keating – For keeps (Keating)

L’età non è un dato certo, ma Annie Keating dovrebbe aver svoltato le 43 primavere, stagione più, stagione meno. La signora, cinque album in 8 anni, è una newyorkese doc, abita al di là del ponte per eccellenza, e si è fatta le ossa nei club del suo quartiere, ovviamente Brooklyn, prima di tentare l’avventura su larga scala. “For keeps”, che segue l’ottimo “Water tower view” (2010), ha tutte le carte in regola per cominciare a salire i primi gradini della famosa “starway to Heaven”. Non siamo in presenza di un prodotto da top ten, ma di cantautorato d’autore, suoni per iniziati, nella pura tradizione del mainstream americano: musica popolare, nel senso alto del termine, ballate folk-rock, chitarre, dobro, organo Hammond, con una inaspettata devianza rap (“Let it come”), tanto per stare al passo con la modernità. Per poi tuffarsi in una melodia strappalacrime, tutta voce, chitarra e violini (“River Clyde”). Nonostante le origini metropolitane, Annie Keating attinge a piene mani alla tradizione del folk texano-californiano, valga per tutti la splendida cover della “Cowgirl in the sand” di younghiana memoria. Alcuni episodi dell’album sono riconducibili al rock al femminile stile Lucinda Williams e Sheryl Crow (“Storm warning”, “Take only what you can”, “Leap of faith”), il che rende “For keeps” un lavoro variegato, molto ben suonato e ancor meglio prodotto. Non conquisterà la vetta della classifica, ma almeno nella nostra personale top ten c’è entrato di diritto.

Patty Griffin – American kid (New West)

Viene chiamata “the voice”, Patty Griffin. Dagli aficionados, ovviamente, che hanno preso in prestito l’appellativo al grande Frank, volendo con un po’ di presunzione. La signora Griffin, 49 anni, viene dal Maine, ma è figlia adottiva del Texax. Dove è diventata una delle regine del folk, inanellando svariati best seller e appuntandosi al petto svariati Grammy. Talmente brava, che lo Zeppelin Robert Plant l’ha voluta nella sua Band of Joy, l’ensembe che lo accompagna da svariati anni a questa parte. Patty Griffin ha avuto una profonda formazione gospel, un genere che ha praticato con grande passione (“Downtown Church”, 2010”) e che ogni tanto reinfila di soppiatto in qualche suo brano, tanto per non dimenticare le radici. “American Kid” è un lungo peana in onore del padre, combattente nella seconda guerra mondiale, frate trappista, insegnante e indefesso produttore di bambini, ben sette. Forse per questo la piccola Patty a 16 anni s’è comprata per 50 dollari una chitarra e se n’è andata in chiesa a cantare. Il casino in casa doveva essere infernale. Quali che siano le ragioni, ben fatto. Alla soglia dei 50, Patty Griffin è un’autorità nel suo campo, che in Italia non è apprezzato a dovere, troppo ampio il divario culturale e geografico. Eppure questo “American Kid” è un gioiellino di certosina fattura. Basta ascoltare “Highway song”, cantata insieme a Robert Plant, che c’ha messo anche la firma in calce. Il fantasma del padre aleggia su tutto l’album, e ogni brano è assemblato con dosaggi da farmacista: slide guitar, mandolini, pianoforte, spazzole, e la sua voce superba a fare da collante. Bellissimo, ma fuori dal target italico, che vola sempre più basso.