Aziende in crisi


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La TNT mette in mobilità 854 lavoratori

Le scelte della multinazionale di spedizioni in Italia tnt_296

di Emanuela Gialli
(emanuela.gialli@rai.it)

“Sviluppo del Paese” e “crescita dell’occupazione”. Sono questi gli imperativi per l’Italia, riaffermati con forza dal Capo dello Stato Napolitano, nel suo messaggio all’Assemblea delle Cooperative italiane.

Sviluppo e crescita sono anche i binari dai quali le politiche economiche del governo non possono deragliare. E il processo per conseguire entrambi gli obiettivi va riavviato con urgenza, scrive Napolitano. Insomma, bisogna riaccendere i motori. Intanto però le imprese denunciano lo stato di crisi economica in cui versano e corrono ai ripari preparando “piani di ristrutturazione”, basati per lo più sul ridimensionamento dell’organico.

In molti settori economici ormai la parola d’ordine per le aziende, anche di proprietà straniera, ma che operano in Italia, è “esuberi” . Il numero delle vertenze sul territorio nazionale cresce in modo esponenziale. Solo sul tavolo del ministero dello Sviluppo economico ad oggi sono arrivate 144 vertenze e riguardano principalmente società e industrie che svolgono attività di rilievo pubblico, soprattutto in campo energetico e industriale. Una delle ultime questioni occupazionali approdate al Mise è quella che investe gli stabilimenti Indesit, con una Company che vuole attuare un piano da 1.425 esuberi. “Esuberi” vogliono dire persone e intere famiglie che vanno ad allargare il già folto esercito di donne, uomini, e figli, in condizioni di grave disagio economico e sociale.

Lo Stato in alcuni casi subentra attraverso lo strumento della Cassa Integrazione, anche in deroga: un aiuto per chi è in difficoltà, ma, obiettivamente, anche un aggravio per il bilancio governativo, sempre alla ricerca di fondi per “far ripartire la macchina” produttiva. Per riavviare “lo sviluppo del Paese” e di conseguenza far crescere l’occupazione. Le imprese stanno tirando sempre più spesso i remi in barca, strette anche nella morsa fiscale che non consente particolari margini di azione: talvolta preferiscono rinunciare a rami di produzione attiva, pur di far quadrare i conti. Così le trattative con i sindacati, che si avviano all’indomani della comunicazione da parte dell’azienda della volontà di procedere a licenziamenti o alla “messa in stato di mobilità” dei dipendenti, spesso si interrompono, di fronte al rifiuto categorico della controparte di ritornare sulle proprie decisioni. E’ quello che sta accadendo alla TNT Italia, società multinazionale di spedizioni, una Spa quotata in Borsa, ad Amsterdam e New York, con la maggioranza delle azioni di proprietà delle Poste olandesi, privatizzate circa 20 anni fa. L’altra parte del capitale azionario è in mano a investitori internazionali e a patrimoni di varia provenienza, anche americana. La TNT Italia, con una lettera dell’amministratore delegato Tony Jakobsen inviata lo scorso 10 giugno, ha annunciato ai dipendenti la decisione di voler procedere a un “piano di ristrutturazione”, con 854 esuberi su 2.980 lavoratori in organico. L’intervista a Domenico Carella, dipendente della TNT, è delegato sindacale della Filt-Cgil.

Carella, in che modo la direzione generale della TNT Italia, con sede a Torino, ha motivato la decisione di procedere alla collocazione in mobilità di 854 dipendenti, finalizzata alla risoluzione del rapporto di lavoro?
Devo fare prima un passo indietro. Questa azienda un anno e mezzo fa circa ha ricevuto un’Opa (Offerta pubblica di acquisto, ndr) dalla UPS, società statunitense, un gigante in questo settore. L’Opa è andata avanti per un anno, finché la Commissione Antitrust europea non ha vietato l’acquisizione per la posizione dominante che il nuovo gruppo avrebbe avuto in Europa. Ciò ha significato un anno di fermo, in attesa di questa acquisizione. Solo a gennaio del 2013 la Commissione Ue si è pronunciata. Dopo un mese e mezzo la TNT ha dato alle stampe un piano che ha chiamato “Deliver” di ristrutturazione dell’intero gruppo multinazionale, in cui si prevedeva già la fine di 4 mila posizioni lavorative, all’interno dell’azienda, su un totale di 82 mila dipendenti, pari a circa il 5% dei lavoratori del gruppo. Siamo poi arrivati a giugno, quando è stato portato a conoscenza il piano di ristrutturazione italiano, cioè l’applicazione del progetto “Deliver” in Italia, che prevede l’allontanamento di un terzo dei dipendenti della TNT Italia. Questo lo dico anche per spiegare l’enorme sorpresa che abbiamo avuto nel momento in cui siamo stati informati, perché non potevamo pensare che su 4 mila dipendenti che avrebbero perso il lavoro in tutto il gruppo, quasi mille fossero in Italia.

A cui vanno aggiunti i lavoratori dell’indotto.
Sì, il numero va almeno raddoppiato, perché, complessivamente, la TNT in Italia impiega 7 mila persone, che lavorano esclusivamente per questa azienda: 3 mila dipendenti e altri 4 mila divisi tra personale di magazzino e addetti alla distribuzione, che costituiscono quel mondo di cooperative che ruota intorno ai grandi gruppi del settore. Quindi di fatto parliamo di almeno 2 mila persone che perderanno il lavoro.

La TNT ha già avviato il suo piano?
Sì, il 10 giugno ha posto in essere il piano di mobilità, seguendo le vie legislative che regolano questo tipo di soluzioni, ha dato comunicazione al sindacato, al ministero e all’Inps del numero di persone che intendeva mettere in mobilità, indicandone le motivazioni.

Quali sono?
La decisione è stata giustificata con la situazione economica di crisi e una previsione di deficit, che la TNT dovrebbe avere quest’anno. Perché fino al bilancio del 2012 l’azienda ha avuto un attivo, non molto, di meno di 1 milione di euro, su 650 milioni di fatturato, comunque in discesa rispetto al bilancio decisamente più positivo del 2008, con oltre 40 milioni di attivo. Ma nonostante la crisi, l’azienda ha avuto un attivo fino all’anno scorso. Adesso, in previsione di un passivo che dovrebbe subire quest’anno, l’azienda decide di “tagliare” 854 persone. Il problema è che non solo queste persone vengono messe immediatamente in mobilità, e tra cinque mesi in pratica saranno fuori dall’azienda, ma anche che lo stesso piano industriale posto alla base di questa riorganizzazione non è in grado di garantire il lavoro nemmeno per i 2 mila che resteranno.

La legge prevede l’ipotesi di collocare in mobilità i dipendenti di un’azienda sulla base di previsioni di passivo e non di uno stato effettivo di crisi?
Sicuramente, la legge lo prevede, perché le prime garanzie vanno alla proprietà privata e dopo al lavoro, questo è il problema fondamentale. Anche se l’azienda deve attenersi alla normativa che regola la mobilità, e quindi deve passare prima attraverso 45 giorni di negoziati con il sindacato e poi attraverso altri 30 di trattative ai ministeri del Lavoro e dello Sviluppo economico, per un totale di 75 giorni, qualora le venisse contestato punto per punto quello che ha deciso di fare, l’azienda alla fine, accordo o non accordo, può decidere di mandare ugualmente le lettere di licenziamento. Anzi, la legge stabilisce che dopo i 75 giorni di trattative, nei 120 successivi deve procedere con le lettere di licenziamento. Anche se i sindacati e il ministero dicono di no, l’azienda può legalmente arrivare ai licenziamenti.

Cosa avete allora deciso di fare come sindacati?
Abbiamo indetto lo sciopero generale per il 28 giugno. Abbiamo messo in cantiere un’altra giornata di sciopero per il 2 luglio. Nel frattempo è stato fissato però un altro incontro con l’azienda il 1° luglio. Speriamo che in questo incontro l’azienda cambi idea, sia soprattutto sulle procedure di mobilità, che noi abbiamo chiesto di bloccare, sia sul piano industriale, che consideriamo del tutto insufficiente.

Lei parla come Cgil, ma la posizione dei sindacati, anche di Cisl e Uil, su questo fronte è unitaria?
Sì, in questo momento i lavoratori, ma anche i vertici sindacali, marciano uniti. Consideri la nostra preoccupazione, perché, a parte alcune situazioni principali a Torino, Milano e Roma, questa è un’azienda che ha il resto dei dipendenti “polverizzati” in decine di filiali, 24 di queste chiuderanno e alcune si trovano in posti nei quali anche noi del sindacato difficilmente riusciamo ad arrivare. Rischiamo di morire in silenzio, senza uno sforzo complessivo di unità, anche nella comunicazione.

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L’impressione dunque è che le vertenze sul tavolo del ministero dello Sviluppo economico nei prossimi giorni siano destinate a diventare 145, dalle 144 attuali, con l’aggiunta della questione TNT Italia, un’azienda nata negli anni Sessanta a Torino, con il nome di TRACO. Poi, negli anni Ottanta, è stata acquistata dall’australiana TNT, diventando TNT-TRACO. Infine, nel 1995-96 le Poste olandesi acquisirono il controllo completo di questa azienda, adottando il nome di TNT, perché più conosciuto.