Musica - i consigli della settimana


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California dreamin’

Un diario per John Fogerty, una confessione per Laura Marling

di Maurizio Iorio
(maurizio.iorio@rai.it)

John Fogerty - Wrote a song for everyone (Vanguard)

Camicia a quadri da campagnolo, faccia da minus habens e colore del capello non in sincrono con l’età (68). Questa l’immagine di John Fogerty che campeggia sulla copertina del suo nuovo album, “Wrote a song for everyone”. Dovrebbe licenziare i suoi consulenti del marketing. Detto questo, come al solito l’abito non fa il monaco. Fogerty è una sorta di monumento della musica popolare americana. Con i suoi Credence Clearwater Revival, negli anni fra il 1967 e il 1972, ha tracciato una linea di congiunzione fra i vari linguaggi musicali dell’epoca (il folk-rock, il surf, il rockabilly, il country, l’hillbilly, il soul, il rhythm’n blues, e il blues-cajun delle paludi del Delta del Mississippi), peraltro negli anni caldi della British invasion, quando i Beatles ed i Rolling Stones avevano monopolizzato le charts del nemico. Nei primi cinque album, pubblicati in soli tre anni, i Ccr inanellarono una corposa serie di hit , neanche fossero alla catena di montaggio. Il loro segreto fu il groove, il ritmo, che rianimava lo spirito dormiente della San Francuisco Bay, allora adagiata sui trip lisergici. E allora, folk-rock, blues delle paludi, talking ballads alla Dylan e una voce da arcangelo Gabriele a svettare sulle ottave. Durati poco, i Ccr, lo spazio di un mattino e il tempo per la colazione, ma abbastanza per lasciare un’eredità pesantissima ai posteri. Una ventina di canzoni, non di più, che hanno marchiato a fuoco più di una generazione e svariate migliaia di musicisti. Qualche esempio: Fortunate Son, Travelin’ Band, Who’ll stop the rain, Proud Mary (che Tina Turner ha fatto conoscere anche ai pinguini), Looking Out My Backdor, Lodi, Ramble Table. Dopo un simile sforzo creativo, a John Fogerty, anima e leader del trio, s’è inaridito il cervello. S’è sparato le cartucce tutte insieme, e nella seguente carriera solista è vivacchiato di rendita e di buoni ricordi. Che, nel caso di “Wrote a song for everyone”, sono riaffiorati tutti insieme, tanto per rinverdire il prodotto. Che, nel caso in questione, non è stato riproposto nudo e crudo, non avrebbe avuto alcun senso. Fogerty ha duettato con una eterogenea truppa di compagni di strada, dai Foo Fighters a Bob Seger, dalla reginetta di Nashville Miranda Lambert a Kid Rock, dalla Zac Brown band (nuove forze dal country) al grande Allen Toussaint, la voce del popolo di New Orleans. Certo, non tutte le ciambelle sono riuscite con il buco. E sono soprattutto i giovani a pagare pegno. Non si può rottamare un’auto vecchia se quella nuova non è migliore. E qui i vecchi bidoni da strada, carrozzeria tirata a lucido e motore revisionato, fanno ancora la loro porca figura. Non a caso il brano più bello, “Who’ll stop the rain”, è revisionato da un Bob Seger in gran forma, nonostante le 68 primavere sulle spalle. Voce pastosa e pianoforte, il vecchio hit dei Ccr viene trasformato in una nuova “Against the wind”. E vale da sola il prezzo del biglietto. Come l’inossidabile “Proud Mary”, che in mano ad Allen Toussaint diventa un frizzante miscuglio di cajun, gospel e r&b. O come “Fortunate son”, vecchio inno della classe operaia, che i Foo Fighters di Dave Grohl attualizzano indurendola al punto giusto. Per il resto, le nuove versioni non rendono giustizia agli originali. Ma nel complesso queste canzoni sono talmente belle, che farebbero bella figura anche suonate con una campana rotta.

Laura Marling – Once I was an eagle (Virgin)

Passare dal groove rockettaro e trascinante di John Fogerty alle atmosfere oniriche e ipnotiche di dell’inglesina Laura Marling è di fatto un percorso freudiano dall’estroversione all’introversione. A soli 23 anni questa biondina pallida dell’Hampshire, occhio ceruleo e faccino da educanda, ha già pubblicato 4 album, da buona enfant prodige, svezzata dai genitori a suon (è proprio il caso di dirlo) di Bob Dylan e Joni Mitchell. E se si chiudono gli occhi, “Once I was an eagle” sembra un inedito di Joni Mitchell, magari inciso fra “Blue” e “Mingus”, scovato chissà dove dal collezionista maniaco di turno. L’aria della California, dove la ragazza si è trasferita, si fa sentire. In “When where you happy” echeggia il David Crosby di “If I could only remember my name” , ma in “Undine” viene alla mente la chitarra di Jimmy Page, tanto per mentene rei legami con la perfida Albione. Vale a dire: la memoria non è un optional. Coraggiosa perfino, la Marling, che osa incatenare fra di loro i primi 4 brani e li fa confluire in una unica, lunga suite, una sorta di trama sonora con l’ordito costruito a misura per un Q.I. superiore. La voce della ninfetta spazia fra angolazioni folk e gorgheggi jazz, con i contrappunti delicati di chitarre acustiche, contrabbasso, harmonium, percussioni, tutti strumenti buoni per conquistare la parte bassa della classifica di vendita. Produce il multi strumentista Ethan Johns, che lavora per sottrazione. L’album è scarno, privo di orpelli, leggero e morbido, introspettivo, non offre il fianco al marketing, che probabilmente lo inserirà nel girone degli eretici. Eppure questo lavoro ha un suo perché, una sua bellezza superiore, che lo fa assolvere dalle pecche del facile ascolto che, per l’appunto, non ha. Va ascoltato a lungo, assaporato in punta di labbra, come i whisky d’annata.