di Maurizio Iorio
(maurizio.iorio@rai.it)
Jack – The meaning of life + Shelter From the rain (Rainkingrecords)
Jack, per i non addetti ai lavori, è Giacomo Baldelli, chitarrista di formazione classica, esibitosi anche in ensemble cameristico orchestrali e in concerti di musica contemporanea. Molto lontano, dunque, dai percorsi del cantautorato rock stradaiolo molto filo-americano che dalle sue parti (Reggio Emilia) vengono battuti dai più. Vedi Ligabue, Vasco, Graziano Romani, i Nomadi, lo stesso Guccini. Terra fertile, dunque, per far sue, masticare, digerire e rielaborare le musiche d’Oltreoceano. Che c’entra con la musica classica, direte voi? C’entra, c’entra. Perché Baldelli è un Giano Bifronte della musica. Da un lato fa sua la tradizione classica, con i suoi rigori e le sue regole ferree, dall’altra esterna la creatività cantautorando all’americana, ovviamente in lingua originale. La sua vena rockettara si è evoluta pian piano, fino a sfociare in una band, il Jacktrio, con la quale ha pubblicato due mini cd, The meaning of Life (2013) e Shelter from the rain (2010). Oltre a Baldelli, del Jacktrio, all’inizio, facevano parte anche il chitarrista classico Erik Montanari e il pianista da conservatorio Andrea Gualtieri, entrambi prestati al rock. Da quest’anno il triangolo è diventato un pentagono, con l’arrivo del bassista Michele Smiraglio e del batterista Francesco Micalizzi. Lievita la formazione e lievita anche la musica. Se “Shelter from the rain” (5 brani) è un album semi-cantautorale, dai toni sommessi e delicati, che contiene una bellissima cover di “The blower’s daugther “di Damien Rice, “The meaning of life” (titolo buono per un film di Terrence Malick) , ha la struttura sonora del rock di sana derivazione mainstream. Linee guida vicine ai Counting Crows, per capirci. Ma attenzione, non siamo in presenza di un sottoprodotto nazionale di musica americana, di una scopiazzatura da baraccone. Qui c’è tutta la cultura bluecollar e/o working class dei discepoli di Springsteen, di Bob Seger, di Tom Petty, di Elliott Murphy, di John Mellencamp, i quali, non potendo assurgere all’Olimpo dei padri, si limitano a diffonderne il verbo senza tradirne lo spirito. Per chiudere: gran bella musica, ben suonata, ben arrangiata, con un airplay da “on The road”. Per essere un prodotto di serie b, è parecchio di serie A.
Valerie June – Pushing against a stone (Concord records)
Decisamente curioso questo raffinatissimo album di una piccola stella che arriva da Memphis, Valerie June Hackett. Per l’arte s’è tolta il cognome. Non propriamente imberbe, è del 1982, la ragazza è cresciuta fra Memphis e Nashville, vale a dire fra il soul e il country. E se con un orecchio si ascolta musica della propria casa e con l’altro quella dei dirimpettai, è chiaro che la mescolanza sonora che avviene nel cervello si riproduce poi nei fatti, senza dover neanche faticare un po’ con l’alambicco. “Pushing against a stone” è il quarto album della signora Valerie, che fino ad ora non è riuscita a varcare la soglia dell’anonimato. Difficile che ci riesca ora, anche se questo ultimo lavoro possiede tutti i crismi per scalare un po’ di classifiche. Parlavamo di miscele sonore, pocanzi: dunque, qui dentro si mescolano soul, r&b, folk, blues, perfino antiche sonorità pellerossa. Se poi la produzione è affidatata a Dan Auerbach, chitarrista dei Black Keys, qualcosa nello showbiz deve essersi messo in moto. Valerie June, originaria delle isole Comore (guardate sull’ Atlante) , oltre che una capocciona di dreadlocks, possiede una vocina sottile sottile, che percorre con discrezione generi quasi antitetici, fungendo da collante per note scollate. La title track suonebbe bene in un film di David Lynch, un bel soul ipnotico da pellicola virata rossa. Il titolo, spiega la ragazza, rappresenta la storia della sua vita, che sente di aver passato a spingere contro una pietra. Ma adesso può darsi che quella pietra si sia spostata, almeno di un po’.