di Emanuela Gialli
(emanuela.gialli@rai.it)
Lo stabilimento di Portovesme è fermo da sei mesi. I lavoratori in cassa integrazione diretta sono 501, 386 in quella indiretta. Alcoa non ha ancora venduto l’impianto. E l’acquirente, che sembrava ormai certa fosse la svizzera Klesch, sembra non dare sufficienti garanzie alla multinazionale americana. Televideo ha raggiunto al telefono il segretario territoriale della Fiom-Cgil, Franco Bardi.
Che ne è di Alcoa? Per tutta la scorsa estate, e fino all’autunno, le vicende dello stabilimento di alluminio di Portovesme, nell’Iglesiente, in Sardegna, hanno accompagnato le cronache sindacali di stampa, radio, tv e web.
Presidi, operai asserragliati sui silos per giorni e notti, trattative al ministero dello Sviluppo economico, condotte dall’allora sottosegretario De Vincenti, sembrano non avere però prodotto finora risultati concreti. L’accordo per la cessione dell’attività dall’americana Alcoa alla svizzera Klesch, dopo il fallimento dei negoziati con Glencore, che sembrava cosa fatta, ora è di nuovo in discussione, mentre lo spegnimento, tanto osteggiato dai 501 lavoratori dell’impianto, e dai 386 dell’indotto, è stato gradualmente portato a termine. Ora lo stabilimento non produce più nemmeno un grammo di alluminio e per gli operai c’è la cassa integrazione. Solo trenta di loro, a rotazione, lavorano alla manutenzione, per mantenere operative le “macchine”, in modo che siano pronte a riprendere il ciclo produttivo sotto un’altra bandiera.
Che però ancora non sventola. Il nodo della questione, finora, si sa, è stato il costo dell’energia. E’ su questo fronte che nelle trattative per la cessione dello stabilimento, di natura strettamente privatistica, si è più volte inserito il governo Monti, lo scorso anno, ma solo per ribadire che sui costi dell’energia qualsiasi azienda si sarebbe dovuta attenere alle tariffe stabilite dall’Unione europea e che non avrebbe potuto attendersi dall’esecutivo italiano, attuale o successivo, alcuno sconto, come avvenuto in passato.
Infatti, Alcoa ha pagato l’energia, per oltre 10 anni meno di 30 euro a megawattora.
La società americana ha acquistato lo stabilimento di Portovesme, dopo aver stipulato con il governo un accordo di dieci anni, dal 1996, dunque prima dell’euro, al 2005, per l’acquisto di energia a un prezzo scontato, perché allora non vi era una normativa europea in materia. Dicono i delegati sindacali che di fatto Alcoa su 150 milioni di euro di bolletta annuale pagava circa 50 milioni, il resto, cioè circa 100 milioni, lo pagava il governo.
Dopo il 2005, l’Ue si accorge che l’Italia, rispetto alla media europea, sta facendo pagare di meno l’energia a un soggetto privato, imprenditore, e apre così la procedura di infrazione per aiuti di Stato. Ma Alcoa ha continuato ad avvalersi del prezzo di favore, considerata la situazione logistica dell’isola (i famosi problemi infrastrutturali di approvvigionamento di energia). Poi la sentenza della Corte di Giustizia europea del 2011 che ha condannato Alcoa a pagare una multa di 300 milioni per aver usufruito illecitamente di un regime di tariffazione elettrica tra il 2006 e il 2009 configurabile come “aiuto di Stato”. La società Usa ha fatto ricorso e comunque negli ultimi due anni Alcoa, prima dello stop, ha pagato più di 35 euro, perché gli accordi, prorogati oltre il 2005, non valevano più. Da qui la decisione di cedere l’attività. Una decisione che era comunque già presente nei piani industriali della multinazionale interessata ad altri mercati, più favorevoli, anche sotto il profilo delle infrastrutture legate alla logistica dell’approvvigionamento energetico. Come quello da 11 miliardi di dollari aperto da poco in Arabia Saudita
Dunque, Alcoa avrebbe comunque lasciato l’Italia, e la trattativa con Klesch, altra multinazionale, che opera in 16 Paesi e impiega circa 4.500 persone, con quartier generale a Ginevra, negli ultimi mesi sembrava decollare. Poi il ripensamento di Alcoa. Perché?
Spiega a Televideo, Franco Bardi, segretario territoriale della Fiom Cgil, 48 anni, da 23 nello stabilimento Alcoa di Portovesme: “Guai contrattuali, con una cedente francese. Una vicenda che ha allarmato Alcoa, fino a spingerla a chiedere a Klesch specifiche garanzie al riguardo, perché –sottolinea Bardi- l’attuale legge stabilisce che, in caso di cessione di un’attività industriale la società che subentra risponde per le irregolarità nei tre anni successivi”. A questo punto che succede allora? “Che il 12 giugno ci sarà un nuovo incontro a Roma, al Mise –annuncia Bardi – anche se al Ministero ci hanno già detto che il governo non può entrare attivamente in una trattativa tra privati”. Il vertice comunque ci sarà e vi parteciperanno, ancora una volta, la Regione e la Provincia di Carbonia-Iglesias. Mentre nell’isola c’è un’altra emergenza da non dimenticare: quella della miniera di carbone di Nuraxi Figus.