di Maurizio Iorio
(maurizio.iorio@rai.it)
Nathalie Maines – Mother (Columbia)
I Pink Floyd devono aver segnato l’infanzia della ancor giovane Nathalie Maines, lead-singer del trio country texano delle Dixie Chicks, che nel 2003, durante un concerto londinese, spararono a zero contro l’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti e contro il presidente George W. Bush (“ci vergogniamo che sia texano”). E’ bastato questo a creare una sollevazione popolare nel mondo del country, assai reazionario, che ha boicottato le tre ragazze. Le radio del settore le hanno cancellate dalla programmazione, e gli sponsor le hanno abbandonate, tanto per gradire. L’anno seguente le Dixie si sono aggregate al tour di “Vote for change” in sostegno di John Kerry, partecipando anche al concertone finale di Washington. Dopo anni di silenzio Nathalie Maines debutta con “Mother”, un album di cover, con “l’endorsement” dei suoi amici Ben Harper ed Eddie Wedder. Ed è proprio con una canzone del leader dei Pearl Jam, “Without You”, tratta dall’ album “Ukulele song” (“Per ogni desiderio espresso su una stella/ Che se ne va senza risposta nel buio/ C’è un sogno che ho fatto su di te”) , che si apre questo “Mother”, che porta il titolo di una delle più belle ballad dei Pink Floyd, ai quali la Maines ha rubato anche il carattere del logo. Va subito messo in chiaro che qui il country non c’entra nulla. Siamo piuttosto dalle parti di Sheryl Crow o Lucinda Williams, tanto per capirci. Rock al femminile, di ottima fattura, senza troppi spigoli da smussare. Così, per attraversare l’Acheronte e sbarcare nel diabolico girone del rock, la Maines ha preso in prestito anche “Free life” di Dan Wilson, “Silver bell”di Patty Griffin, “Trained” di Ben Harper, “Love, you should’ve come over”di Jeff Buckley, “I’d run away” dei Jayhawks. In più altri tre brani, due dei quali scritti con Ben Harper. “Mother “non è l’album del secolo, che peraltro è ancora lungo, ma è un piacevole compromesso sonoro fra una voce da easy listening (tipo Stevie Nicks) ed un rockettino da viaggio su opportuna spider con capello al vento.
Eric Burdon – Til your river runs dry (Abkco)
Difficile che i neo-ventenni, ma ci aggiungerei anche i trentenni, abbiano la più pallida idea dell’esistenza di Eric Burdon, oggi 72enne, vecchio leone del british blues, lead singer dei leggendari Animals. Cercatevi sul web “The house of the rising sun”, o “Don’t let me be misunderstood”, e vi si aprirà un mondo. Scomparso troppo presto dalle hit parade, Burdon non è mai rimasto con le mani in mano, ma si è sempre tenuto alla larga dallo show-biz, tant’è che si è auto-definito “Mr. Anarchia”. Quelli come lui non hanno bisogno di dimostrare nulla a nessuno, non seguono le mode, non innovano, ma sono come i mobili antichi, non passano mai di moda. Basta una lucidata ogni tanto, una passata di antitarlo, e tornano come nuovi. Così è per Eric Burdon, da Newcastle, Inghilterra, ma quasi Scozia. Anche Sting viene da lassù. Dentro “Til your river runs dry” c’è del buon vecchio blues-rock, che la superba voce di Burdon, ancora intatta, nonostante le molte primavere sulle spalle, nobilita assai. Band essenziale, organo Hammond come prescrive il protocollo, cori femminili dosati alla bisogna, et voilà, il gioco è fatto. Questo è un album che emana calore, fatto apposta per girare in loop nei locali della Big Easy, New Orleans per la cronaca. Canzoni ecologiche, come “Water”, che ha l’onore di aprire con fare vigoroso la scaletta, o “Medicine Man “, tenebrosa e dolente, rubata a Marc Cohn, valgono il prezzo del biglietto. Oppure “Invitation to the White House”, blues jazz da strip-tease nel quale il vecchio bluesman sventola la bandiera della pace nella stanza dei bottoni, o ancora “Before you accuse me”, scippata ai Credence Clearwater Revival, che chiude il libro. C’è una ballad accorata, “27 forever”, dedicata a chi non ce l’ha fatta a superare la barriera del maledetti 27 anni: Jim Morrison, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Kurt Cobain, Amy Winehouse. Troppi, e troppo grandi, per non meritare un epitaffio sonoro. Un ricordo anche per Bo Diddley, (“Bo Diddley special), scomparso 5 anni fa, pioniere del rock ‘n roll a stelle e strisce negli anni ’50. A conti fatti, “Til your river runs dry” è corposo e ben strutturato, ben suonato e molto omogeneo, senza cadute di tono. La voce di Burdon fa ancora vibrare le coronarie, e peccato che abbia 70 anni e appartenga più al passato che al presente. Ma il passato va studiato per progettare il futuro. D’altronde, Dante non l’hanno mai tolto dai licei.