di Rodolfo Fellini
(rodolfo.fellini@rai.it)
Nubi sempre più pesanti si addensano sulle elezioni generali che si svolgono in Pakistan. L’appuntamento con le urne giunge in un clima di insicurezza tale da convincere il governo a schierare 70mila tra militari e poliziotti, oltre a decine di migliaia di forze paramilitari, per tutelare la regolarità del voto. La blindatura delle operazioni è stata decisa dopo che il capo della Commissione elettorale centrale ha dovuto riconoscere la quasi impossibilità di garantire elezioni libere. Molti scrutatori hanno rinunciato all’incarico, temendo per le proprie vite, e ogni giorno della campagna elettorale è stato macchiato dal sangue di almeno un candidato al Parlamento o ai Consigli provinciali. Il Paese sembra sempre di più sfuggire non solo al controllo del governo centrale, ma anche a quello delle amministrazioni locali. Nell'intento di far fallire le elezioni, i talebani hanno intensificato i loro attacchi contro candidati, attivisti e responsabili politici dei partiti laici. Gran parte degli attentati sono stati compiuti a Karachi, ex capitale e principale porto del Paese, feudo della famiglia Bhutto nonché, da qualche tempo, teatro di una guerriglia tra sunniti e sciiti. I morti si sono contati a decine anche nel Balucistan, dove sono attivi gruppi separatisti, e nella provincia Khyber-Pakhtunkhwa, dove sorge Peshawar. La situazione è apparsa invece più tranquilla nel Punjab, la provincia più popolosa del Paese, mentre da molti anni il Waziristan e i Territori del Nord-ovest, al confine con l’Afghanistan, sfuggono quasi completamente al controllo delle istituzioni.
Partiti laici nel mirino
"I talebani stanno cercando con la violenza di bloccare ogni possibile progresso dei partiti laici. Non so quanto ci riusciranno, perché c'è una certa capacità di resistenza della società pakistana", osserva Stefano Silvestri, presidente dell'Istituto affari internazionali (Iai).
I leader dei tre partiti maggiormente minacciati dagli estremisti (Ppp, Anp e Mqm) hanno reagito annunciando, per la prima volta insieme, che non si lasceranno intimidire dalle violenze. Ma i candidati si sono ben guardati dall’esporsi a bagni di folla, ripiegando sulle tv e i social network. Peraltro, hanno dalla loro poche conquiste da rivendicare: i partiti si sono fin qui dimostrati incapaci di garantire servizi sociali, istruzione e un apparato giudiziario funzionante, favorendo il rischio di un’islamizzazione della politica. La crisi economica che ha impoverito uniformemente la popolazione ha fatto il resto. Che si vada a elezioni in una sorta di Stato di polizia, o che i condizionamenti finiscano per falsare l’esito delle urne, l’appuntamento con il voto mostra chiaramente la fragilità di una democrazia che non ha saputo consolidarsi. Il Pakistan resta pur sempre il Paese in cui non molto tempo fa Benazir Bhutto, leader assoluta della storia democratica, veniva assassinata proprio durante un comizio. I sondaggi prevedono comunque un aumento dell’affluenza ai seggi, che per la prima volta potrebbe superare la soglia del 50%, in virtù soprattutto della giovane età del corpo elettorale. Le urne diranno se i cittadini confermeranno la fiducia a una classe politica tra le più corrotte del mondo o se, nella ricerca di certezze, si orienteranno verso una nuova teocrazia, decretando l’inizio della fine di uno Stato laico, prezioso alleato per l’Occidente in una tra le aree più strategiche del pianeta.
La sfida fra tre pesi massimi
In palio sono i 342 seggi del Parlamento e i Consigli delle 4 province. "Certamente, la sfiducia nei confronti dell'attuale partito di governo e del presidente Zardari tende per il momento a favorire i partiti moderatamente islamici. Ma il rischio non è forse tanto l'islamizzazione della vita politica, quanto la crescente frammentazione. Quello che preoccupa, in queste elezioni, è lo scarso controllo dell'autorità centrale su alcune regioni. Peraltro, gli stessi partiti tendono a esprimere più posizioni locali che nazionali", nota ancora Silvestri.
Tra i favoriti alla carica di primo ministro è Bilawal Bhutto, il 24enne figlio di Benazir Bhutto e dell’attuale capo dello Stato, l’impopolare Asif Ali Zardari. Ha condotto una campagna elettorale sotto tono, fiducioso nell'effetto che produrrà il cognome materno, e nell’ultima settimana prima del voto ha deciso di autoesiliarsi negli Emirati arabi uniti fino a dopo l'ufficializzazione dei risultati. In caso di successo, non potrà insediarsi prima del 21 settembre, poiché la Costituzione impone al premier di avere almeno 25 anni. Il suo partito è il Ppp, di ispirazione socialdemocratica, che oggi è la principale forza del governo di coalizione uscente, il primo che sia riuscito a completare il proprio mandato nella storia del Pakistan. Ma il suo potere non è tanto dovuto alla precaria stabilità garantita o a inesistenti conquiste sociali, quanto al dato etnico: il Ppp è il partito dei sindhi, che rappresentano il 55% della popolazione. Alle ultime elezioni ottenne il 35% dei voti, cifra che punta ora a confermare.
Sfumata la candidatura dell’ex generale golpista ed ex presidente Pervez Musharraf, tornato in patria per partecipare alle elezioni ma invischiato in numerosi guai giudiziari, nella contesa restano due pesi massimi. Il primo è l’ex giocatore di cricket Imran Khan, novità politica di orientamento conservatore, animato da una forte retorica anti-americana, che non esclude di introdurre la Sharia e promette di scardinare il sistema dei privilegi delle famiglie che da sempre dominano il Paese. Ma l'uomo da battere sembra essere l’ex premier Nawaz Sharif, del partito di centro-destra Lega musulmana, che nel 2008 sfiorò il 27% dei consensi. Dato dai sondaggi in grande rimonta e fortemente radicato nella popolosa provincia del Punjab, Sharif viene visto come una sorta di "usato sicuro" e non è troppo inviso al talebani. Un suo ritorno potrebbe costituire la vera sorpresa di una consultazione che, in definitiva, si preannuncia senza veri vincitori né vinti.