Un saggio sulle donne nella ‘ndrangheta


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'Onora la madre'

Angela Iantosca viaggia in una Calabria sconosciuta d

di Paola Scaramozzino
(paola.scaramozzino@rai.it)

Lea Garofalo è una donna calabrese, nata e cresciuta in una famiglia di ‘ndrangheta. A 17 anni si sposa con l’uomo che ama e che appartiene anche lui a una famiglia di mafia. Nasce una bimba, Denise ma Lea è insoddisfatta e capisce che quel modo di vivere le sta stretto. Vuole per sua figlia un futuro diverso, non deciso alla nascita come per lei e diventa testimone di giustizia. L’ex marito la ucciderà il 24 novembre del 2009 perché ha trasgredito quel codice d’onore della ‘ndrangheta che non si può che lavare con il sangue.

Questo uno dei tanti racconti di “Onora la madre, storie di ‘ndrangheta al femminile” di Angela Iantosca, Rubbettino editore, un saggio che studia il ruolo delle donne nella mafia. Abbiamo incontrato la giovane autrice per capire questo testo che è molto articolato ma che si legge facilmente perché scritto in maniera asciutta, essenziale e in stile giornalistico.

Da dove nasce il suo interesse per questo argomento certamente non facile?
“Sono molti anni che mi occupo e sono affascinata dai vari movimenti che sono nati a favore della legalità. Diciamo che è un tema che sento mio da sempre ma a darmi lo slancio è stato l’incontro con Don Aniello Manganiello, il prete anti-camorra di Scampia che mi ha fatto capire molte cose anche con il suo libro “Gesù è più forte della camorra”. In quel periodo hanno poi iniziato a collaborare con la Giustizia delle donne appartenenti a famiglie di ‘ndrangheta come Giuseppina Pesce e da lì parte la mia idea aiutata da moltissime persone”.

Tante davvero visto che alla fine del libro ci sono due pagine di ringraziamenti che colpiscono...
“Sì, devo dire veramente grazie a molte persone. Innanzi tutto al professore Enzo Ciconte che ha curato anche la prefazione del libro, poi a tutta la Procura di Reggio Calabria che mi ha accolto dandomi il massimo della loro disponibilità e in particolare il tenente colonnello Carlo Pieroni e poi la gente che ho incontrato, la mia famiglia”.

La ‘ndrangheta, o meglio la mentalità ‘ndranghetista, annulla tutto, anche l’amore di una madre per il figlio o al contrario quello del figlio per il genitore. Sembra impossibile, ma le regole della ‘ndrina sono più forti dell’istinto, della natura. Non si acquisiscono, si tramandano, si respirano nella famiglia, in un mondo chiuso, omertoso e più esteso di quanto si possa immaginare perché anche chi non è coinvolto direttamente lo accetta e lo condivide non contrastandolo.

Il verbo “onorare” che significato ha nella ‘ndrangheta?
“Onorare è rispettare delle regole non scritte che tutti gli appartenenti all’”Onorata” conoscono e attendono. Un rispetto che trasgredito si può lavare solo con il sangue. E in questo non esistono legami di parentela, neanche quelli tra un figlio e una madre. Scrivo del giovane 14enne che uccide la madre, Paola Bonfiglio perché malgrado sia vedova, si unisce ad un nuovo compagno, cosa inaccettabile per un uomo di onore. La stessa cosa vale per il marito che non può lasciare la moglie o viceversa. Il caso del giovane meccanico Fabrizio Pioli di Gioia Tauro che aveva conosciuto via Internet una giovane donna sposata il cui marito viveva al Nord tranquillo perché a proteggere la sua famiglia ci avrebbe pensato il suocero e il cognato. Al loro primo incontro, Fabrizio e la ragazza vengono sorpresi dal padre e dal fratello di lei che lo inseguono e lo uccidono. Il cadavere verrà ritrovato dopo mesi. Coraggiosamente la donna li denuncia e ora vive protetta in una località sconosciuta. Oppure del caso di Lea Garofalo. Il marito proprio qualche giorno fa in tribunale, è stato condannato all’ergastolo, ha confessato di averla uccisa, ma ha cercato di screditare l’omicidio definendolo non di ‘ndrangheta ma di impeto, un raptus. La figlia Denise, pur sapendolo che il padre è il responsabile si tiene tutto dentro per un anno consapevole di poter fare la stessa fine. Adesso è in una località protetta”.

Ha avuto difficoltà nell’incontrare appartenenti a famiglie di ‘ndrangheta o testimoni di vittime o le stesse collaboratrici di giustizia?
“Non particolarmente. Certo alcune situazioni mi sono rimaste impresse come i raduni dei fedeli alla Madonna di Polsi in Aspromonte, il Santuario dove si riunivano tutti i capi della ‘ndrangheta per decidere le loro azioni. Oggi è diversissimo da un tempo, si arriva con le auto. Una volta partivano le carovane da tutta la Calabria, si camminava per ore per arrivarci. Montagne e boschi tutto intorno. Isolati anche dal mondo, non prendo i cellulari, internet. Ci sono poliziotti e carabinieri a presidiare il posto ma c’è un qualcosa di ancestrale, magico e anche inquietante nelle tarantelle che proseguono per notti e giorni. E per rimanere lì qualche giorno “bisogna essere accettati”. Veramente un altro mondo“.

E’ cambiato il ruolo delle donne di ‘ndrangheta. Rimangono sempre due passi dietro al marito o alla famiglia?
“Direi di sì, le decisioni sono sempre degli uomini ma le mogli e le madri nel tempo sono diventate vivandiere, usuraie, spacciatrice e spietate come i loro compagni. Alcune nate in questo ambiente si sono sentite soffocare e come Giuseppina Pesce, dopo il suo arresto, decide di rompere con la famiglia mafiosa per salvare i propri figli e diventa collaboratrice. Ad un prezzo enorme, a volte la vita stessa. Non è facile capire per chi è al di fuori dall’ambiente. Se nasci e cresci in un posto dove uno sgarbo si lava con il sangue, dove è normale che altri decidano chi sarà tuo marito, è scontato che tu debba viverci tutta la vita condividendo i suoi crimini, allontanarsi da questo mondo consapevoli che non è questo quello giusto, non si può minimizzare con un semplice atto di coraggio. E’ molto di più”.

Grande spazio ha dedicato proprio alle collaboratrici di giustizia che hanno tentato di abbattere il muro di omertà che paradossalmente è ancora più impenetrabile rispetto ai componenti di Cosa nostra, perché le famiglie di ‘ndrangheta sono tutte imparentate. Da questo elemento nascono le faide e le morti di innocenti che casualmente si sono trovati sulla traiettoria di proiettili destinati ad altri
“Uomini d’onore che uccidono donne e bambini. Come il piccolo Dodò che il 29 giugno del 2009 a Crotone, mentre giocava con il padre a pallone, veniva colpito per errore in un’ agguato della criminalità organizzata. Moriva dopo tre mesi di coma”.

Leggendo il libro si capisce quanto il tessuto sociale in Calabria è impregnato dalla ‘ndrangheta che sappiamo ha una disponibilità economica enorme. La lotta per la legalità è quasi impari. Eppure una speranza sembra esserci
“Sì, me l’hanno data i parenti delle vittime, i loro racconti e il fatto che i giovani si siano organizzati per urlare un no corale alle mafie. Il muro di omertà per ora si è almeno incrinato”.