di Bianca Biancastri
(bianca.biancastri@rai.it)
Prosegue la tendenza globale verso l’abolizione della pena di morte, ma preoccupano le battute d’arresto in India, Giappone e Pakistan dove, dopo un lungo periodo, lo Stato è tornato a giustiziare i condannati alla pena capitale. Nel 2012 ci sono state esecuzioni solo in 21 Paesi, lo stesso numero del 2011, ma in calo rispetto a dieci anni fa (28 Paesi nel 2003). I primi cinque Paesi in cui il boia ha lavorato di più sono gli stessi: Cina, Iran, Iraq,Arabia Saudita e Usa, seguiti dallo Yemen. Amnesty International è venuta a conoscenza di 682 esecuzioni, due in più sul 2012, e di almeno 1.722 sentenze capitali in 58 Paesi, rispetto alle 1.923 in 63 Paesi dell’anno precedente.
Quanto manca a un mondo senza esecuzioni capitali? Lo chiediamo a Carlotta Sami, direttrice della sezione italiana di Amnesty.
“E’ stato fatto molto, anche grazie al lavoro di Amnesty International negli ultimi 50 anni. I numeri sono diminuiti anche se non siamo ancora al numero zero. E’ una discesa che continua in maniera abbastanza regolare in tutte le parti del mondo, sia negli Stati Uniti, dove nel 2013 abbiamo registrato l’uscita da questo tipo di pena del Connecticut, sia nell’Europa dell’Est, dove la Lettonia è stato il 97esimo Paese del mondo a diventare abolizionista. Purtroppo ci sono ancora alcuni Paesi che continuano a fare uso della pena di morte, la più crudele in assoluto, e che destano molte preccupazioni. In primis la Cina, che tiene nascosti i suoi dati . Pensiamo che qui le esecuzioni siano state migliaia, e poi l’Iraq e i Paesi dell’area del Golfo, in particolare l’Arabia Saudita. Ci sono stati anche dei Paesi che hanno fatto passi indietro, Paesi in cui non si registravano esecuzioni da anni e che invece hanno ripreso, come ad esempio il Giappone”.
Come interpretare la ripresa della pena di morte in questi Paesi, come Giappone e India?
“In Giappone sono passati 20 mesi senza esecuzioni e poi improvvisamente sono stati messi a morte tre prigionieri a marzo e un altro alla fine dell’anno scorso. Un dato estremamente preoccupante, sul quale abbiamo fatto delle richieste ufficiali e delle proteste. Il Paese che ci preoccupa di più, tuttavia, è la Cina dove non è possibile ottenere nessun tipo di dato e l’uso della pena di morte è avvolto nel segreto più assoluto”.
E quindi c’è poco da fare per la Cina…
“In realtà c’è tanto da fare, perché nei Paesi dove c’è qualche recrudescenza dell’uso della pena di morte e dove ormai è globalmente accettato che il potere deterrente della pena di morte non esiste quello che invece continua a essere cavalcato è lo scopo politico della pena di morte. E questo uso politico in determinati Paesi viene opportunisticamente utilizzato, purtroppo a danno degli esseri umani, di tanto in tanto e quindi riprendono l’uso delle pena capitale . Questi lo vediamo in Paesi come l’Arabia Saudita, nei Paesi del Golfo e lo vediamo anche in altri Paesi dove si ritiene che in quel momento l’utilizzo della pena più crudele e più degradante possa portare un vantaggio politico a chi lo dispone”.
Su questo tipo di scelta, cioè lo scopo politico della pena di morte, quanto pesa il voto nello scorso dicembre dei 111 Stati membri dell’Onu a favore della IV risoluzione di moratoria?
“Sicuramente pesa tantissimo. Perché a livello internazionale e all’interno delle Nazioni Unite il percorso abolizionista non ha mai subito una battuta d’arresto. Continua ad andare avanti. Amnesty International continua da 50 anni a tenere alta la pressione e i risultati si vedono. Quindi dobbiamo essere fiduciosi che la nostra attenzione è sempre massima”.
In Medioriente e in Africa sub-sahariana abbiamo visto passi avanti ma anche notevoli passi indietro
“Preoccupano anche queste due regioni. In questo caso l’uso populista e politico della pena di morte è talvolta legato anche a motivi religiosi e preoccupa moltissimo. E anche nell’Africa sub-sahariana, in particolare in Sudan e in Gambia. Ma noi restiamo fiduciosi anche perché l’Italia è da sempre in prima linea su questo e quindi per ora anche a livello diplomatico il nostro Paese è sempre stato molto impegnato e abbiamo tutti gli elementi per sperare che anche in futuro continui ad esserlo. Contro la pena di morte sono molto importanti il lavoro diplomatico e i movimenti di opinione. L’opinione contraria alla pena di morte si sta diffondendo sempre di più nel mondo”.