di Rita Piccolini
(r.piccolini@rai.it)
Una conferenza scientifica in Vaticano del professor Marco Vanelli ha affrontato il tema delle relazioni tra il cinema e la rappresentazione del trascendente attraverso le immagini. Un argomento di grande interesse soprattutto durante la settimana dei riti pasquali, nel corso della quale dalla maggior parte delle emittenti televisive vengono riproposti film di argomento religioso ispirati alla vita e alla passione di Gesù.
Film e fiction. C’è il pericolo della banalizzazione di contenuti altissimi sia per i credenti che per i laici. Rischio da non sottovalutare in considerazione del fatto che i bambini sono i fruitori più sensibili di tali contenuti veicolati dalle immagini cinematografiche. Ma i “grandi” del Cinema hanno affrontato tale problema e lo hanno risolto con soluzioni tecniche importanti e di forti suggestione. Perché il rapporto con la trascendenza è imprescindibile per tentare il racconto di un immaginario aldilà.
Jean-Luc Godard, regista e sceneggiatore, uno degli esponenti più importanti della Nouvelle Vague, nonché uno dei registi più significativi del cinema francese e internazionale, da non credente, nelle riflessioni interne e a margine dei suoi film soprattutto a partire dagli anni Ottanta (“Passion 1982”; “Re Lear” 1987), afferma di cercare un’immagine filmica che abbia la stessa tensione spirituale del volto del Risorto e a questo proposito cita San Paolo :“L’immagine verrà al tempo della risurrezione” e poi a sua volta sostiene:” Prima non c’erano immagini, solo dei tentativi, con i miracoli. Il cinema è in un certo senso la resurrezione del reale”. Come risolve dunque il regista il problema di un’immagine “perfetta e compiuta” che nessuno ha ancora visto? Avvicinandosi teoricamente al concetto dell’icona cristiana. Lo schermo bianco, spiega il professor Vanelli in conferenza citando Godard ,diventa come il lino della Veronica , pronto a rivelare il volto di Cristo: “Tu non lasci più tracce nella memoria perché essa è là, tutta bianca, schermo bianco, panno bianco come quello della Veronica: per noi è il corpo del film, per lei il corpo di Cristo”.
Luce abbagliante quindi che nel cinema si avvicina al concetto di icona della tradizione ortodossa: in essa non si riproduce la realtà così come nelle immagini dei quadri, delle stampe o delle fotografie che ri-producono le forme che nella realtà percepiamo attraverso la vista, ma viene rivelato un contenuto trascendente attraverso forme visibili. Spiega ancora il professor Vanelli: “Nella nostra tradizione l’immagine raffigura qualcosa di sacro; un’icona è sacra in sé, in quanto luogo di incontro tra il divino e l’umano.” L’icona dunque come “finestra sull’aldilà”. Nell’icona la luce non viene da una sorgente esterna, ma ne costituisce il fondo stesso. Luce luminosissima e accecante come ce la racconta Dante rappresentando il Paradiso nella Divina Commedia, come la vediamo in alcuni film significativi e recenti ad esempio “Hereafter”di Clint Heastwood del 2010.
“Cosa hanno in comune i film e l’icona? E cosa hanno in comune il monaco che la dipinge annullandosi e il regista che mette in scena i propri sogni di celluloide?”; “Quale pellicola potrebbe sostenere l’esposizione alla luce della Trasfigurazione?”.Il professor Vanelli, nel rispondere a questi quesiti, porta come esempio la sequenza finale del discusso film di Martin Scorsese “L’ultima tentazione di Cristo”del 1988. Dopo la morte in croce di Gesù, sullo schermo, mentre ascoltiamo il suono festoso delle campane, vediamo la pellicola che si rivela per quello che è: “Nastro forettato e colorato, negativo allo stato puro, technicolor non impresso, panno della Veronica ancora immacolato. La risurrezione non può essere rappresentata:il diaframma della cinecamera non reggerebbe a tanta luce , l’occhio dell’operatore rimarrebbe folgorato”. Scorsese sembra negare la possibilità di filmare la trascendenza ma l’esprime con un artificio. Scrive a tal proposito il critico Walter Pedullà nel suo libro “Perceval”: “Ogni mimesi diretta del sacro è interdetta e tutt’al più i registi potranno limitarsi a riprendere l’esperienza umana del divino (come dire che, di Paolo a Damasco, si può mostrare tutt’al più l’uomo che cade da cavallo…).
Ma i tentativi di raccontare “l’oltre” nella storia del cinema sono stati molteplici e hanno sempre avuto punti di contatto con l’icona della tradizione ortodossa. Carl Theodor Dreyer ne ha colto la spiritualità nella sua “Passione di Giovanna d’Arco” del 1927, dove l’icona è il primo piano, l’espressione del volto della “pulzella d’Orléans che esprime santità, i grandi occhi e lo sguardo fisso che contemplano l’aldilà; Sergej M.Ejzenstein ne ha tenuto presente il concetto raccontando la Russia della Rivoluzione d’Ottobre e proponendo le immagini del potere sovietico da un punto di vista iconografico: la rappresentazione del concetto di autocrazia fondata sull’ortodossia; Andrey Tarkosvskij ha tentato l’iconostasi filmica raccontando la vita e le opere di Andrej Rublev; Sergeej Paradzanov ha concepito la figurazione delle inquadrature come fossero icone nel suo film “Il colore del melagrano” del 1968. E’ a questi grandi del cinema che è stata dedicata la conferenza e ai loro percorsi di cammino spirituale attraverso le immagini.
Il professor Marco Vanelli, insieme a Marco Bellano e Giovanni Ricci, ha appena pubblicato il volume “Animazione in 100 film” (Le Mani): una guida per conoscere più a fondo i capolavori del cinema d’animazione. Sempre per le edizione Le Mani uscirà a breve anche “Chi è Dio? Il catechismo cinematografico di Mario Soldati, Diego Fabbri e Cesare Zavattini” dove analizza e racconta la storia di un cortometraggio del 1945 per anni ritenuto perduto.