di Maurizio Iorio
(maurizio.iorio@rai.it)
Devendra Banhart – Mala (Nonesuch)
Anche se di recente il cantautore ( e compositore e attore e pittore) texano Devendra Banhart si è concesso una bella tosata, la maggior parte delle persone lo ricorda avvolto da una capigliatura assai longuette e da una barba da vecchio eremita. Di fatto, nonostante la giovane età – è nato nell’81 – esteticamente Banhart è la rappresentazione post-litteram di un hippie apolide e atemporale. Artista a tutto tondo, non è uno che sta con le mani in mano. Ha esposto le sue tele al Moma di San Francisco e ha pubblicato otto album. L’ultimo parto ha solo qualche giorno, e si chiama “Mala”, parola serba (come la sua fidanzata, la fotografa Ana Kras) che vuol dire “tenero”. “E’ una parola usata in molte lingue con significati diversi” , dice Banhart. “E la sua trasversalità ben rappresenta il mio nuovo lavoro”. “Mala” è stato registrato con apparecchiature analogiche anni ’80, e pubblicato da un’etichetta prestigiosa come la Nonesuch, che arruola fra le sue file gente come David Byrne, Brad Meldhau, Pat Metheny e Joshua Redman. Devendra Benhart di fatto è un incatalogabile, uno di quelli che farebbe impazzire gli archivisti. Ad esempio, ha dedicato una canzone del nuovo album a Ildegarda di Bingen, una santa tedesca del XII secolo, ispirandosi al “Virtus Sapientiae” del Kronos Quartet, scritto per l’appunto dalla donna, considerata una femminista ante-litteram, “professione” molto rischiosa nel Medio Evo. L’album, per la verità assai minimalista, è un condensato di folk elaborato per sottrazione, nel quale fanno capolino, con assoluta discrezione, delle fleshate elettroniche, che attualizzano il suono. Ci sono dei gioiellini , come “Won’t you come over” e “Hatchet Wound”, che fanno salire lo spread dell’opera, che il giovanotto, leggermente autarchico, ha scritto, suonato, cantato, co-prodotto e disegnato (la cover). Più che un frikkettone Behnart è un frikkettino che produce filigrane, non sacchi di iuta. Per la cronaca: Devendra è un nome che rimanda a Hindra (una divinità Hindu dell’acqua) e il ragazzo, di madre venezuelana, è vissuto parecchio tempo a Caracas, prima di tornare negli States.
Zachary Richard – Le Fou (Avalance)
Premessa: il cajun è la musica degli Acadiens, i coloni francesi del Canada scacciati nel ‘700 dagli inglesi e rifugiatisi nelle paludi della Louisiana, dove, ancora oggi, se ne trovano delle sparute rappresentanze. Zachary Richard è il più celebre musicista cajun, in 35 anni di carriera ha pubblicato 20 album, tutti ad alto contenuto artistico. Inoltre è poeta, scrittore, documentarista, e fortemente impegnato nella causa ambientalista. Non a caso “Le fou”, il titolo suo ultimo lavoro , è il nome del primo uccello (la sula piediazzurri) salvato e ripulito dopo il disastro ambientale causato dall’inabissamento della piattaforma petrolifera della Bp nelle acque del Golfo del Messico nel 2010. Registrato fra Montreal e New Orleans, “Le Fou” è un album di intensa bellezza, che fonde con dosaggio perfetto e grande passione blues e cajun, zydeco (il cajun dei creoli) e folk-rock, violini e fisarmoniche, ballate da lacrimoni e fughe danzerecce. Musica da ballare intorno al fuoco, nelle feste del villaggio, circondati da caimani e zanzare da combattimento. Una musica che nasce dal basso, che racconta storie antiche, come “La ballade de Jean de saint Malo, dedicata al leader di un gruppo di schiavi ribelli, uno Spartacus del ‘700, o “La chanson del migrateurs”, o “Les ailes del hirondelles” (le ali delle rondini), vecchia meraviglia recuperata da un album degli anni ’70 e riproposta qui in versione struggente. Circondato da una band di pirati della musica, che dal vivo trascina più di una vaporiera, Zachary Zichard si conferma ancora il leader musical-spirituale di un’etnia quasi estinta e fortemente discriminata. Non è facile entrare in sintonia con il francese, ma bastano due note di violino, dobro e fisarmonica per far pace con la lingua e lasciarsi trasportare dai ritmi festaioli del cajun. L’anno scorso è uscito un dvd, “Some Day Live at the Montréal International live jazz fest”, che rende perfettamente l’idea di cosa sono capaci Richard e la sua band dal vivo.