di Emanuela Gialli
Intervista a Luciano Maiani, classe 1941, negli anni ’90 presidente dell’Infn, e dal 1999 secondo direttore generale italiano del Cern, dopo Carlo Rubbia. Sotto la sua direzione, il Centro di ricerca nucleare di Ginevra compie la scelta di passare al grande acceleratore di particelle. Dal 1976 è professore di Fisica teorica all’Università “La Sapienza” di Roma. Maiani ha scritto di recente un libro, edito da Mondadori, “A caccia del bosone di Higgs”, al quale ha collaborato il capo ufficio stampa dell’Infn, Romeo Bassoli. All’Auditorium di Roma, il lavoro di Maiani ha inaugurato la manifestazioni “Libri come”, che si apre il 17 marzo,
Professor Maiani, il libro spiega i risultati, splendidi, ottenuti, ma è anche un’occasione per riepilogare le tante difficoltà della ricerca italiana.
Le difficoltà sono ben chiare. C’è una difficoltà di visione. Le nostre forze politiche e i nostri governi si devono mettere d’accordo su quale ruolo vogliono dare alla scienza nella nostra società., perché la scienza ha bisogno di una visione condivisa. Ha bisogno di una programmazione a lungo termine e di continuità, per dare garanzie ai giovani che vogliono spendere la loro vita, quella personale di ciascuno, i propri anni vitali, in cui si possono produrre e realizzare idee e aspirazioni. Dare la certezza che lavorano in un quadro condiviso. Non un quadro in cui un giorno si deciderà di abolire le università e in un altro di costruirle. Non è possibile. Oltre alla mancanza della visione di lungo termine, vi è anche il problema della mancanza di finanziamenti e la difficoltà di trovare una collocazione per i nostri giovani, che sono praticamente alla diaspora. Quando io mi sono affacciato al mondo della ricerca, negli anni Sessanta, le condizioni di continuità e di un quadro condiviso c’erano. Oggi non è così.
E nonostante tutto i ricercatori italiani ottengono risultati ottimi e conquistano posizioni di primo piano nelle strutture scientifiche.
Noi abbiamo nella Fisica una scuola di prima grandezza, che è stata creata dai nostri “padri”, mi riferisco a Enrico Fermi ed Edoardo Amaldi in particolare il quale ha mantenuto insieme la Fisica italiana negli anni della Guerra e l’ha spinta verso la ricostruzione. Abbiamo contribuito alla fisica europea in maniera riconosciutissima. Abbiamo tutti i nostri studenti, che sono bravi, e continuano a venir fuori, ma purtroppo non sappiamo dove metterli, perché non abbiamo la possibilità di dire a ciascuno di loro “c’è un futuro per te”. Non c’è un futuro per tutti. E poi questa guerra all’Università, che sarà sì affetta da clientelismi, paternalismi, però continua a insegnare e a sfornare giovani di prima grandezza. Giovani che quando vanno all’estero trovano posto e competono con gli altri.
E dove vanno raggiungono i risultati che raggiungerebbero in Italia, se potessero restare?
Negli anni Settanta anch’io ho avuto offerte per andare a lavorare all’estero e la mia valutazione è stata che il Dipartimento di Fisica di Roma, in quel momento, era il posto migliore in Europa dove lavorare. E io ho ringraziato per l’offerta e ho scelto l’Italia. Allora era così. Oggi i nostri Dipartimenti sono tutti di alto livello, anche se nel tempo vi è stata l’erosione delle risorse, le restrizioni burocratiche che non vanno nella direzione giusta. Ma soprattutto credo che quello che fa più male ai giovani e ai meno giovani è questa sensazione di non vivere in una situazione in cui la ricerca è un valore condiviso per quello che è. Ognuno parla della ricerca, ma tutti pensano a delle cose diverse. Quando i politici dicono che bisogna sostenere la ricerca si riconosce che ognuno pensa a una cosa diversa dall’altro e da quello che pensano i ricercatori, che è forse la cosa più grave.