di Maurizio Iorio
(maurizio.iorio@rai.it)
Emeli Sandé – Live at Royal Albert Hall (Virgin)
Ventisei anni, carnagione scura e capello platinato, nata nell’ Aberdeenshire, in Scozia, da madre inglese e padre zambiano, ex-studentessa di medicina, Emeli Sandé è stata il lieto evento musicale del 2012, quando ha pubblicato il suo album d’esordio, “Our version of events”, una delle migliori sorprese nel vasto panorama della musica la femminile. La ragazza, assolutamente sconosciuta, era già stata notata dalla giuria dei Brit Award, che le ha assegnato il Critic’s Choise 2012, lo stesso riconoscimento vinto da Adele nel 2008. In effetti le affinità fra le due nuove leve del soul-pop inglese sono molte, a cominciare dalla voce, che viaggia sulla stessa timbrica morbida, e dalla struttura delle melodie, molto soffici e suadenti, ma mai ruffiane. Molte le affinità anche con Alicia Keys e Rihanna, colleghe che presto raggiungerà sul piano della popolarità. Potrebbe anche superarle, soprattutto la stellina delle Barbados, visto che Emeli possiede molta più anima. “Le mie fonti d’ispirazione? Nina Simone, Joni Mitchell e Lauryn Hill” , confessa la Sandé, che pur con un solo album all’attivo (“Our version of events”) ha deciso di uscire con un live, registrato in un tempio della musica prestigioso come la Royal Albert Hall di Londra. Di fatto il repertorio è costituito dalle canzoni dell’album d’esordio, alle quali Emeli ha aggiunto “I wish I knew how I would feel to be free” di Nina Simone e due episodi inediti, Enough” e “Pluto”, che probabilmente troveranno posto nel prossimo album. Il live, che non è certamente uno di quelli da portare nell’isola deserta, è comunque assai piacevole, ben suonato, molto ben cantato, mai banale. “Suitcase”, ballata romantica strappamutande, viene affrontata a cappella, con il solo basso a contrappuntare la linea melodica. Emozionante anche “Read about it”, singolo del rapper inglese Professor Green, che è arrivato al numero uno in Gran Bretagna in una sola settimana con oltre 150mila copie vendute, e che interviene sul palco alla fine del brano. Da lacrimoni “Breaking the low” con tanto di coro gospel che enfatizza la delicata bellezza della voce della ragazza, che firma quasi tutti i brani rivelandosi anche una notevole songwriter. Consigliabile? Assolutamente sì.
Dido – Girl who got away (Sony)
La bella Dido si ripresenta in pubblico dopo una pausa sabbatica durata ben 5 anni. L’ultima fatica, “Safe trip horn” l’aveva prodotta nel 2008, poi oblio esistenziale. L’assenza non ha provocato revisioni nel format musicale della ragazza, ormai quarantaduenne, e dal nome lungo come un giorno senza pane, che riportiamo per opportuna conoscenza: Dido Florian Cloud de Bounevialle O'Malley Armstrong . Che, fra alti e bassi, ha comunque venduto 29 milioni di copie dei suoi tre album. E che, forse proprio per questo, non cambia di una virgola la sua formula, fatta di armonie pop assai gradevoli, ben scritte, ben cantate e ben arrangiate. Oltre che ben prodotte. A questo c’ha pensato il fratellino Rollo, membro della band elettronica dei Faithless, con i quali Dido esordì come vocalist. Non è un caso che l’elettronica faccia troppo spesso capolino tra i solchi, sporcando con sonorità fredde e sincopate la voce calda e suadente della vocalist londinese. E’ questo il vero limite dell’album, che pur nella sua piacevolezza, risulta troppo algido per scaldare le notti insonni e solitarie. Fra le due, Emeli Sandè ha un altro passo.