di Maurizio Iorio
(maurizio.iorio@rai.it)
Pink Floyd – The dark side of the moon
Se qualcuno avesse detto a David Gilmour e soci che “Il lato oscuro della Luna” li avrebbe resi più famosi di Gesù e più ricchi di Creso, probabilmente avrebbero chiamato la guardia medica per far ricoverare l’incauto profeta. Eppure è successo, e i Pink stanno ancora lì a cercare di farsene una ragione. Sono passati 40 anni giusti giusti dal 1° marzo del ’73, giorno in cui l’album debuttò in società. All’epoca i vinili venivano scorticati dai pesanti braccetti delle fonovaligie o degli stereo di Selezione, i più economici in commercio, e dopo un po’ di reiterati ascolti cominciavano a frusciare come foglie al vento. “The dark side” divenne in breve tempo l’album più venduto della storia del rock (calcoli approssimativi stimano 42 milioni di copie), superato successivamente da “Thriller” di Michael Jackson e dalla colonna sonora di Grease. Ben 15 anni nella top 100 e 741 settimane nella classifica di Billboard, la Bibbia delle charts americane, con picchi all’insù per ogni ristampa o riedizione pluripatinata. Dopo capolavori psichedelici come “Ummagumma” e “Atom Heart Mother”, i Pink Floyd pubblicarono quell’album con in copertina un prisma attraversato da un raggio di luce, a ricordare molto da vicino l’occhio di Dio. Chissà che, nel profondo delle loro menti ottenebrate da qualche acido, i Pink non collocassero la residenza divina proprio nella zona scura della Luna. Con “The dark side” i Pink Floyd cambiarono registro sonoro, niente più suite psichedeliche, retaggio indimenticato dell’epoca Barret, ma canzoni potenti e omogenee, registrate con un suono che fino ad allora non si era mai sentito, e che diventerà il marchio di fabbrica per gli anni a venire. L’ underground si rigenera in pop di classe. Merito soprattutto di quel geniale artigiano del suono che risponde al nome di Alan Parsons, che intraprenderà poi una carriera artistica con un suo gruppo di rock progressivo. Parsons, che aveva già lavorato con i Beatles e con gli stessi Pink in “Atom Heart Mother”, utilizzò uno dei primi registratori a 16 piste, piazzato negli studi di Abbey Road, per mettere a punto una potenza di fuoco sonora che farà di “The dark side” un album multimilionario, e paradossalmente anche la cartina al tornasole per scegliere un impianto stereo. Per avere il marchio di qualità la riproduzione delle monete che cadono di “Money”, dei ticchettii dell’orologio di “Time”, dell’elicottero di “On the run” , dei vocalizzi di Clare Torry in “The great gig in the sky” doveva essere perfetta. Ma il suono, quel suono, non basta da solo a spiegare le ragioni di un successo planetario. I testi di Roger Waters, facilmente comprensibili anche a un pubblico non anglosassone, furono determinanti: i temi dominanti dell’album, l’alienazione, lo stress, l’avidità del denaro e la paura della morte, rappresentavano perfettamente lo spirito dell’epoca. Che non è diverso da quello di questo presente senza futuro. Per questo “The dark” è così terribilmente attuale.
David Bowie – The next day (Columbia)
Il ritorno del Duca Bianco. Così, d’emblée. Un segreto custodito meglio del terzo di Fatima, bocche cucite e oblio mediatico. Erano dieci anni che Mr. David Bowie mancava dalle scene, complice un malessere cardiaco ed una ipotizzata malattia senile. Invece il Duca meditava, scriveva, componeva, arrangiava, avvolto nel mistero più fitto. Poi, all’improvviso, a 66 anni, ecco “The next day”. La quiete dopo la tempesta. Due anni e mezzo di lavoro, collaboratori di prim’ordine (Gail Ann Dorsey, Tony Levin, Zach Alford), et voilà, il gioco è fatto. La cover rubata a “Heroes”, con una semplice etichetta appiccicata sopra il suo primo piano. Probabilmente per non dimenticare che “possiamo essere eroi solo per un giorno”, e che i bei tempi dell’ispirazione ipertrofica non torneranno più. Ma il mestiere quello no, non si dimentica. E dentro “The next day” di mestiere ce n’è molto, ben coordinato dal sapiente produttore Tony Visconti. Il singolo prodromico, “Where are we now?, è una ballata commossa, recitata con voce incerta, e ambientata nella Berlino pre-muro. Ma l’incedere dell’album è decisamente rock, marcatamente atemporale. Bowie non litiga con l’età, non ha bisogno di rincorrere le mode, essendone stato lui stesso prolifico creatore. Scrive canzoni eleganti, perfette nelle loro dissonanze, orchestrate con la maestria di un artigiano del bello. Come “The star are out tonight”(video raffinatissimo, in compagnia del suo alter-ego femminile, Tilda Swinton), o “Dirty Boys”, una colonna sonora di waitsiana fattura per un noir girato nelle backstreets londinesi. O nella psichedelica “I’d rather be high”, dove canta gli orrori della guerra, accompagnato da cori infantili, come in “We don’t need no education” dei Pink Floyd. Sono molte le sfaccettature sonore di “The next day”: spruzzate di psichedelica, riferimenti aella vecchia trilogia berlinese, stilettate rock del periodo “Heroes”. E tematiche come la solitudine e la desolazione urbana a fare da filo conduttore. Mai scontato, Mr. Bowie, mai prevedibile. Non si è seduto sugli allori. Anzi. Nel ritornello di apertura della title track canta: “Here I am, not quite dying”, “Sono qui, non sono ancora morto”. Con buona pace dei menagrami.