di Rodolfo Fellini
(r.fellini@rai.it)
Se la religiosità di un popolo si misura dal numero e dalla grandiosità dei templi, i birmani non temono confronti. Dopo mezzo secolo di isolamento il loro Paese, ribattezzato Myanmar dai militari, si sta rapidamente aprendo al turismo internazionale, e mostra il volto di una terra profondamente legata al culto di Buddha.
Il buddhismo non è la religione di Stato, ma viene praticato dalla maggioranza dei cittadini, che devolvono circa un quinto dei loro scarsi redditi alla manutenzione e costruzione dei templi e al sostentamento dei monaci. Per due volte nella vita, i birmani devono sottoporsi a un breve noviziato. Da bambini, trascorrono una decina di giorni in monastero per un primo saggio della vita monacale; poi, intorno ai vent’anni, vi soggiornano per un periodo più lungo, al termine del quale decidono se dedicare la loro vita allo studio delle sacre scritture. Il sistema pare proprio funzionare, poiché i monaci sono oggi 600.000, pari a circa l’1% della popolazione. Essi vivono esclusivamente delle offerte dei concittadini laici, che li considerano dei saggi e conferiscono loro un potere morale, assoluto e incontrastato. Nessuno dei regimi che si sono susseguiti nel Paese ha mai osato mettere in discussione la superiorità dei monaci. Non a caso, il processo di apertura alla democrazia avviato dal regime militare prese il via nel 2007, proprio in seguito alla rivolta di un gruppo di monaci che contestavano l’aumento del 300% del prezzo dei carburanti.
Quello praticato nel Myanmar è il buddhismo theravada, che propone l’astinenza e la contemplazione come via da seguire per l’illuminazione. La pratica consiste in almeno due momenti quotidiani di preghiera e raccoglimento, che si possono attuare tra le mura domestiche o in uno dei luoghi di meditazione. I templi contengono spesso gigantesche statue dorate del Buddha, davanti alle quali il fedele si raccoglie in preghiera. L’immagine raffigura sempre il principe Siddharta, l’ultimo dei 4 buddha fin qui riconosciuti e di cui si abbiano notizie più o meno certe. Il corpo del Buddha presenta a volte forme arrotondate, quasi a volerne sottolineare l’universalità di una natura che è maschile, ma anche femminile. La costruzione del corpo viene affidata agli operai, mentre il volto, sempre sorridente e rassicurante, è appannaggio esclusivo dei migliori artigiani della zona in cui la statua viene eretta. La posizione più frequente è quella del “risveglio”, in cui il Buddha è seduto a gambe incrociate, con la mano sinistra appoggiata al grembo e rivolta verso l’alto e la destra che tocca terra. Le statue dorate di Buddha vengono costantemente curate e arricchite dai fedeli con piccole foglie d'oro, in vendita fuori da ogni tempio. Nelle pagode, più semplici e ariose, l’area dedicata alla preghiera è preceduta dalle cassette per le offerte e, talvolta, da uno spazio riservato ai nat, gli spiriti protettori, retaggio del culto animista. Nei templi e nelle pagode colpiscono anche l’uso dei colori, sempre sgargianti, e il numero davvero strabiliante di statue di Buddha presenti, di ogni forma, dimensione e materiali. Le costruzioni più numerose sono tuttavia gli stupa, strutture a cono che custodiscono oggetti sacri o reliquie, sormontate da un ombrello a più strati, che indica le tappe da superare per raggiungere il Nirvana. Al contrario delle abitazioni (costruite per lo più in legno o bambù), templi, pagode e stupa sono fatti in muratura, per durare nel tempo. I luoghi di culto sono disseminati per tutto il Paese e si moltiplicano con forme sempre più audaci, all’insegna della massima visibilità data dai colori e dal gigantismo. Ad esempio, nel complesso Bodhi Tahtaung, che è tuttora in costruzione, è stato eretto un Buddha alto 168 metri, ai cui piedi è sorta una vera e propria foresta di oltre mille Buddha seduti, ciascuno dei quali è affiancato da un ficus, l’albero sacro.
Tanto gigantismo si traduce in una religiosità che non è mai ostentata, ma appare profondamente radicata negli abitanti. L'impressione, visitando città che sono baraccopoli e campagne votate esclusivamente a un'economia di sostentamento, è che ci sia una coerenza di fondo con quella "ricerca dei meriti" che la fede buddhista impone a chi vuole salire nella scala della reincarnazione. Nella povertà disarmante di uno dei Paesi più sfortunati del pianeta, il senso di solidarietà è tangibile e, nonostante le enormi difficoltà linguistiche, un'estrema cordialità e disponibilità rendono impossibile non comunicare. Difficile che uno straniero si senta in pericolo o giudicato: un sorriso non è mai perso, una parola, anche se non capita, non cade mai nel vuoto. L'impressione è che i birmani, vessati da un lungo isolamento e da regimi totalitari che li hanno schiacciati nella loro assoluta povertà, abbiano sviluppato una forma di umanità rara, forse la perla più preziosa che si offrirà al visitatore più attento.