di Sandro Calice
Ha vinto un “classico”, un film americano tradizionale, rassicurante, dove c’è il bene, il male e l’eroe che aggiusta tutto; un film che se non accontenta tutti, di sicuro non scontenta nessuno. “Argo” (qui la recensione), la storia vera e “cinematografica” della liberazione di ostaggi americani nell’Iran di Khomeini del 1980, è un film di impegno e grande mestiere, con un pulito dosaggio di dramma e ironia, probabilmente la scelta migliore che l’Academy poteva fare in assenza di veri capolavori. Era, tra l’altro, dai tempi di “A spasso con Daisy” (1990) che un film non candidato all’Oscar per la miglior regia non vinceva il premio come miglior film.
Il trionfatore di questa edizione, però, se stiamo ai numeri, è il sorprendente “Vita di Pi” di Ang Lee, un film (est)etico che infatti, oltre alla migliore regia, porta a casa i premi per le categorie più “sensoriali”, come fotografia, colonna sonora ed effetti speciali. Tratto dal romanzo del canadese Yann Martel, il film ha avuto una genesi movimentata e i candidati a dirigerlo sono stati registi cosiddetti “visionari” M. Night Shyamalan, Alfonso Cuaron e Jean-Pierre Jeunet. Poi Ang Lee ha avuto il coraggio di andare fino in fondo, vincendo la scommessa.
Crollo e apoteosi, invece, in uno stesso film: il “Lincoln” di Spielberg che su 12 nomination raccoglie solo due Oscar, uno dei quali però è da record: il terzo riconoscimento (mai accaduto prima) come miglior attore protagonista a Daniel Day-Lewis, che già aveva vinto nel 1990 con “Il mio piede sinistro” e nel 2008 con “Il petroliere”. E’ la seconda volta che Spielberg viene battuto da Ang Lee nella regia: la prima fu nel 2006, quando “I segreti di Brokeback Mountain” vinse contro “Munich”. “Lincoln”, un capolavoro imperfetto, ha pagato probabilmente il prezzo di essere il più “europeo” dei film di Spielberg (in una edizione tra l’altro in cui un vero europeo, “Amour”, era candidato come miglior film): un film poco epico, troppo umano, quasi un pezzo di teatro, e “sporco”, come dev’essere la politica se vuole risultati importanti. Troppo “pesante”, signora mia, per vincere un Oscar, avranno pensato i giurati. Stesso peso politico che probabilmente ha penalizzato l’intenso “Zero Dark Thirty” di Kathryn Bigelow sulla caccia a Bin Laden: troppo scoperto ancora il nervo delle torture della Cia, troppo “sporca”, appunto, la politica dietro.
La politica (e la polemica) ha tentato di avvolgere anche il divertente “Django Unchained” di Quentin Tarantino, che racconta lo stesso tema di “Lincoln”, la schiavitù, ma a modo dell’autore. Accerchiamento respinto e premio (quello alla migliore sceneggiatura originale allo stesso Tarantino) che paradossalmente potrebbe essere il preferito dal regista, che da tempo va dicendo di essere stanco di stare dietro la macchina da presa e di voler solo scrivere. Come che sia, in questo caso siamo pienamente d’accordo con i giurati: la forza del film sta nella scrittura più che in tutto il resto.
In fondo, la vera sorpresa, il vero coraggio, sarebbe stato quello di dare qualche premio allo splendido “Re della Terra Selvaggia” di Benh Zeitlin: se ve lo siete persi, recuperatelo: vi innamorerete di Hushpuppy, sia come protagonista che come attrice.