Musica - i consigli della settimana


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Siena, oltre il Palio e il panforte

Nuovi cd per Baustelle e Gianna Nannini

di Maurizio Iorio
(maurizio.iorio@rai.it)

BaustelleFantasma (Atlantic)

Il passaggio da band di culto a band di successo, che vale una differenza di qualche centinaio di migliaia di dischi venduti, non è sempre agevole, è una strada lastricata di trappole, la prima delle quali è la perdita d’identità. Che è la cosa più difficile da conservare. In Italia, negli ultimi anni, sono state parecchie le nuove leve che sono riuscite ad ampliare il proprio uditorio senza snaturarsi e vendere l’anima al diavolo, tipo Verdena, Afterhours, Subsonica, per citare i primi che ci vengono in mente, oltre ai Baustelle, dei quali andiamo a parlare qui di seguito. Francesco Bianconi, il poeta della band, Rachele Bastreghi e Claudio Brasini sono praticamente un’ologramma, appartengono al mondo delle ombre, dei “fantasmi”, per l’appunto. Vivono ai margini della civiltà mediatica, e non ci sarà mai spazio sufficiente per ringraziarli di questo. Ignorare quali siano le loro inclinazioni sessuali, le preferenze politiche, le fedi religiose, le ascendenze e le discendenze, i gossip ed i contro gossip è un piacere quasi estatico. Detto questo, il nuovo album (il sesto) della band senese, “Fantasma”, che arriva a tre anni di distanza da “I mistici dell’Occidente”, è un lungo percorso immaginifico da digerire con il Maalox. Che non suoni come offesa, ma per comprendere la musica dei Baustelle bisogna avere una preparazione culturale superiore alla media. Che in Italia è decisamente bassa, Ocse docet. Il linguaggio di Bianconi e compagni è multidirezionale, molti i significati e i simboli che si nascondono dietro testi e musica. I Baustelle sono sufficientemente maudit per disegnare un’atmosfera gotica all’interno della quale le inquietudini giovanili trovano un habitat ideale. “Fantasma” è un lavoro notturno, difficile, quasi horror, perfino cimiteriale (in “Monumentale” ricorrono cimiteri e campi santi), che ammicca alla morte per sdrammatizzarla (“La morte non esiste più”), che pesca in una consolidata tradizione cantautorale che va da De André a Tenco, da Ciampi a Brassens. E che va ad immergersi nella Mitteleuropa grazie ai suoni della Filmharmony Orchestra di Breslavia (Polonia), che enfatizzano senza cadere nel pomposo il rock dei Baustelle. Siamo lontani anni luce da Sanremo, ma molto vicini ad un corposo pubblico di nicchia che dalla musica italiana pretende profondità e condivisione di sentimenti. Certo, questa non è la colonna sonora per “Un posto al sole”, ma una consapevole linea musicale che aderisce perfettamente a questi tempi cupi, privi di sogni, speranze e prospettive. Il tempo passa, la morte si avvicina, le vite si distruggono e rigenerano, è la musica che garantisce la sopravvivenza. Non il rock, che in questo album viene edulcorato dalla presenza dell’orchestra. La musica, quella che “wagnerianamente” ti entra nell’anima e ti offre un Vangelo su cui pregare. E’ quello il “Fantasma” che alberga in tutti noi. Ovvero: il tempo, il suo scorrere, la sua fine, l’apocalisse (Maya, L’estinzione della razza umana”). Temi forti, doversamente sonorizzati con l’orchestra, come se “Fantasma” fosse un film. Che sia di Dario Argento, di Roger Corman o di Alex Projas poco importa.

Gianna Nannini – Inno (Rca)

Abbiamo sempre sostenuto che se Gianna Nannini fosse stata un uomo avrebbe avuto lo stesso successo di Ligabue o di Vasco Rossi. Ma il rock è maschio, come il rugby. E’ la storia che lo testimonia. L’uomo è guerriero, la chitarra è la sua spada, o il suo fucile, e la musica ribelle degli ultimi 50 anni ha sempre partorito eroi maschi. Non è maschilismo, è la realtà. Questo l’handicap che Gianna Nannini ha dovuto subire, suo malgrado. Alcune canzoni del passato , come “America”, “California”, “Ragazzo dell’Europa”, “Autostrada”, “Bello e impossibile”, che pescano a piene mani nella poetica ribelle e stradaiola del rock americano, non sfigurano affatto accanto a “Sandy”, “Albachiara”, “Vita spericolata” di Vasco, o accanto a “Certe notti”, “Sogni di rock’n roll”, “Piccola stella senza cielo” di Ligabue. Nel corso degli anni la rabbia da rockeuse dura e pura di Gianna Nannini si è andata smorzando, complice l’età e (supponiamo) la recente maternità. Inutile cercare di trovare all’interno di “Inno” un “anthem” memorizzabile e segnatempo. Le nuove storie di Gianna Nannini (13, in questo caso) vengono più dalla ragione che dal cuore, c’è il mestiere al posto dell’impulso, c’è la consapevolezza al posto dell’avventura. Il tutto grazie anche all’impronta di Will Malone, che ha piazzato qui e là partiture orchestrali, che trasformano la carta vetrata della scrittura rock in un luccicante pop d’autore. Non a caso “Nostrastoria” è stata scritta insieme a Tiziano Ferro, re del pop italico, e delinea l’identità dell’album, che rivela una maturità ed una pace interiore che non albergano nelle anime giovani, come in “Tornerai”, ispirata ad Elsa Morante, e scritta insieme alla scrittrice Isabella Santacroce. “Dimmelo chi sei” è un brano rock che riecheggia i vecchi tempi, ma è distonico rispetto al taglio melodrammatico dell’album, ben rappresentato dalla splendida “In the rain”, mortificata dagli archi e cantata sottovoce. Urlata e con le chitarre sguainate avrebbe un impatto diverso. Per chiudere: gran bella voce (mai avuto dubbi in proposito) melodie armoniche ed accattivanti, ma arrangiamenti gesuitici.