di Mariaceleste de Martino
(mceleste.demartino@rai.it)
È una storia infinita, politicamente noiosa. Si ripete a spirale in un labirinto senza uscita. Cambiano i protagonisti, ma restano gli stessi identici problemi da così tanti anni che è imbarazzante ricordare quanti.
Israele-Palestina. Una partita giocata faticosamente e spesso scorrettamente, dove il vincitore non c’è mai. Verrebbe voglia di non fare più domande alle Autorità, perché tanto neanche loro hanno risposte, quelle concrete. Esprimono intenzioni, auspici, opinioni e previsioni per il futuro. Un futuro che attendiamo come il Messiah.
Questa volta torniamo a parlarne della tensione mediorientale con Mark Regev, portavoce internazionale del primo ministro israeliano Netanyahu.
Dopo le elezioni del 22 gennaio scorso, cambierà qualcosa nel cosiddetto “processo di pace”? Tutte le parti, Obama-Netanyahu-Abu Mazen vogliono una soluzione, ma tra il dire e il fare vi è un abisso e forse il concetto di “pace” non è uguale per tutti. Cos’è che attiva il processo di pace e cos’è che lo interrompe?
“Israele resta pronto a ricominciare colloqui di pace direttamente con i palestinesi senza qualunque prerequisito o precondizione”, afferma Mark Regev, portavoce internazionale del premier israeliano, Benjamin Netanyahu. “Siamo pronti a discutere tutte le questioni che sono al nocciolo del conflitto. Nessun argomento deve essere un tabù. Purtroppo, negli ultimi quattro mesi in palestinesi hanno rifiutato questa offerta, alzando una serie di precondizioni finte che hanno impedito la ripresa dei colloqui. L’unico modo per appianare le divergenze esistenti tra le parti è attraverso il dialogo, tuttavia la parte palestinese ha deciso di boicottare il tavolo dei negoziati”, continua Regev.
“Da un lato, i palestinesi dicono che vogliono la pace. Dall’altro canto, rifiutano di parlare con Israele. Con chi vogliono fare pace? Guatemala?”, incalza Regev.
“Quello di cui abbiamo bisogno ora è tornare ai colloqui diretti. Il primo ministro Netanyahu è impegnato a perseguire la pace con i palestinesi in modo serio, realistico e responsabile”.
Il ministero israeliano della difesa ha approvato altri piani che prevedono la costruzione di alcune centinaia di alloggi in due insediamenti ebraici nella città cisgiordana di Betlemme. Ci potrà mai essere un accordo pratico se Israele continua a “espandersi” con i coloni che occupano altra terra palestinese?
“Fondamentalmente, il destino degli insediamenti sarà stabilito nei negoziati, nei colloqui di pace. Israele è pronto a negoziare la questione degli insediamenti assieme a tutti gli altri problemi che riguardano il conflitto e siamo pronti a riattivare il dialogo”, rassicura Regev.
“Al primo ministro dovrebbe essere riconosciuto di aver dimostrato flessibilità. Lui è l’unico premier che ha concordato su un blocco degli insediamenti per dieci mesi”, aggiunge.
“I palestinesi amano mettere in evidenza che gli insediamenti appaiono come la ragione per cui non abbiamo pace. Ovviamente, questa è una questione che deve essere risolta nei colloqui, ma è scorretto dire che è per questo motivo che non c’è la pace. A Gaza abbiamo demolito tutti gli insediamenti e rimosso tutti i coloni. Abbiamo forse ricevuto pace in cambio?”.
Gaza e Cisgiordania sono su una posizione diversa, non vanno d’accordo neanche tra di loro. Può mai essere credibile uno “Stato della Palestina?
“Sì. La formula per la pace è due Stati per due popolazioni in cui uno Stato palestinese smilitarizzato riconosca la legittimità dello Stato ebraico”, precisa con forza Regev.
“Ovviamente, Hamas a Gaza si oppone a questo obiettivo. Dicono che il mio Paese deve essere distrutto. Dicono che il mio Paese non ha alcun diritto di esistere. Dicono che ogni cittadino israeliano, uomo, donna e bambino, è un target legittimo. Naturalmente, posizioni così estreme rendono impossibile l’avanzamento verso la pace. Infatti, Israele e l’Europa sono d’accordo che Hamas non può essere un partner nei colloqui di pace a meno che non moderi le sue posizioni e accetti gli standard fissati dal Quartetto. Ribadiamo di essere pronti per colloqui con le Autorità palestinesi, ma purtroppo non sono stati disponibili a parlare con noi. Mi auguro che questo cambi. E spero che l’Europa aiuti a convincere i palestinesi che il percorso che li porti a essere uno Stato è attraverso la pace con Israele ed è ora di cominciare”.
“La morale della favola è questa", continua Regev: "Se i palestinesi vogliono uno Stato in modo tale da avere una piattaforma superiore per continuare il loro conflitto con Israele non dovrebbero sorprendersi se noi non siamo di sostegno. Se, invece, vogliono uno Stato in una struttura di pace e riconciliazione, per terminare il conflitto, troveranno in Israele un vero collaboratore”.
Nertanyahu è il primo premier che ha interrotto la creazione di insediamenti per dieci mesi, ma li ha anche riattivati. E in un momento delicato aumenta anche la battaglia sul terreno. Era necessario colpire la Siria?
“Che domanda è questa?”, sbotta al telefono Gil Hoffman, analista politico israeliano e corrispondente del Jerusalem Post. “È come chiedere se dopo il calar del Sole spunterà la Luna”, dice stizzito aggiungendo di non essere un esperto militare.
Qual è la sua opinione politica? Le due cose corrono parallele, no?
“Sì, certo, che sono collegate. Se la Siria stava per colpire con un razzo anti balistico prodotto e fornito dall’Iran chiunque con un po’ di sale in zucca avrebbe attaccato”.
Ma il missile non è mai arrivato, o sbaglio?
“Il missile lo abbiamo bloccato”.
Al conflitto è connessa una guerra preventiva. E come si legge in un articolo del Telegraph, di qualche giorno fa, Israele è intenzionato a effettuare altri attacchi contro la Siria e anche contro Hezbollah, in Libano. Il Telegraph riporta che Israele ha affermato che “l’intero asse del male sta andando a pezzi”. Ai tempi del presidente Usa, Bush, “l’asse del male” era un modo militare per indicare Iran-Iraq-Nord Corea. Ora, Israele forse intende Iran-Siria-Hezbollah-Hamas? È così?
“Non ho mai sentito usare questo termine. Ma non vi è alcun dubbio che l’Iran appoggi il massacro che sta avvenendo in Siria e che l’esercito di Hezbollah ha 50mila missili destinati contro la popolazione israeliana. Se la Siria cadesse farebbe male all’Iran e la regione sarebbe più sicura per tutti. E i Paesi mediorientali avrebbero interesse ad andare verso una politica Occidentale e non verso una super potenza nucleare come l’Iran. Quindi, se la Comunità internazionale avesse mai la tempra morale di fermare il massacro in Siria non vi sarebbe alcun dubbio che il mondo sarebbe più al sicuro per vari aspetti. Ma non è questo che interessa alla leadership internazionale che ha altre priorità evidentemente. Sono molto più interessati nelle mosse minori fatte dal governo di Israele, appoggiate dal consenso della popolazione di Israele, che non fanno male a nessuno. Questo è il mondo in cui viviamo, purtroppo”.
E nel “processo di pace” a che gioco stiamo giocando? Dov’è il trucco?
“Il vero trucco sarebbe di fare pressione sui palestinesi per farli accettare le concessioni che rifiutano per aiutare la gente e raggiungere la pace. La pressione dovrebbe arrivare dagli Stati Uniti e dall’Occidente per far avanzare il processo di pace”.
Lei vede la luce alla fine del tunnel? Io non vedo neanche più il tunnel?
Ride Gil Hoffman e aggiunge: “Tutto dipende se l’America è disponibile a imparare dai propri errori. Finora ha dimostrato di ripetersi”.
La Storia si ripete…
“Non è inevitabile che la Storia si ripeta. Accade solo se i leader non imparano dalla Storia”.
Concludiamo l’intervista con un nostro intervento in conference call mondiale organizzata da Project Interchange.
L’inaspettato successo del partito centrista e laico Yesh Atid, di Yair Lapid, arrivato al secondo posto nelle elezioni del 22 gennaio scorso, è per caso stato un voto influenzato dalla comunità ebraica Usa che appoggia Obama il quale non è d’accordo con la politica di Netanyahu?
“Sì, Lapid parla per la comunità ebraica americana, ma non penso che gli israeliani lo abbiamo votato per questa ragione, bensì per questioni sociali ed economiche. C’è richiesta per una riforma del sistema elettorale”.
Si attende ora la visita in primavera, il 20 e il 21 marzo prossimi, del presidente degli Stati Uniti, Obama, in Israele e nei territori palestinesi. Principalmente si parlerà di Iran. Cambiano i colori, cambiano i nomi, cambia il meteo, ma il processo di pace va avanti e indietro come un minuetto