Lotta alle mutilazioni genitali femminili


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Mai più seviziate nell'intimo

Prima giornata mondiale dopo la messa al bando l

di Alessandra D'Agostini
(a.dagostini@rai.it)

Dai villaggi africani al Palazzo di Vetro, passando attraverso i Parlamenti di mezzo mondo. Questo il percorso intrapreso da decenni da governi e organizzazioni internazionali per sradicare la pratica delle mutilazioni genitali femminili. Percorso che sfocia nella giornata mondiale, il 6 febbraio, la prima dopo la storica risoluzione delle Nazioni Unite del 20 dicembre 2012 che mette al bando le mutilazioni. L’iniziativa vuole sensibilizzare l’opinione pubblica contro questa pratica, che viola la donna nella sua integrità fisica e psicologica.

Secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità, sono almeno 140 milioni, e 92 solo in Africa, le neonate e le adolescenti che hanno subito mutilazioni sessuali e ogni anno se ne aggiungono altri due milioni. Malgrado le MGF (FGM nell’acronimo inglese) siano state vietate in molti Paesi, sono praticate soprattutto in Africa e in alcuni Paesi del Medio Oriente (Emirati arabi e Yemen). In Somalia, è mutilato il 98% delle donne. Vi sono casi anche in Asia, America e in Europa –in Italia dal 2006 è in vigore una legge che punisce il reato- all’interno delle comunità di immigrati. L’Ue stima che circa mezzo milioni di bimbe ne siano state vittime e 180.000 siano a rischio ogni anno.

La pratica varia a seconda dei Paesi e va dal taglio della punta del clitoride all’asportazione dell’intero clitoride e delle grandi labbra. Le mutilazioni genitali provocano immenso dolore, emorragie e in alcuni casi anche la morte. Vi possono essere inoltre danni permanenti agli organi vicini, ascessi e tumori benigni, infertilità oltre che problemi nei rapporti sessuali e durante il parto. Spesso le mutilazioni sono fatte senza anestesia, con coltelli, lame di rasoi, vetri rotti o forbici. Le emorragie vengono arrestate con garze e bendaggi, per i punti di sutura si utilizzano spine di acacia o fili di crine. L’infibulazione non è legata alla religione ma affonda le proprie radici nell’antichità. Si pratica per salvaguardare l’identità culturale o l’identità sessuale, per il controllo della sessualità poiché in molte società vi è la convinzione che le mutilazioni riducano il desiderio della donna per il sesso, abbassando quindi il rischio di rapporti fuori dal matrimonio.

La lunga storia della lotta contro le MGF risale al 1952 quando il problema fu sollevato dalla Commissione sui diritti umani dell’Onu. Finalmente nel 1984 le Nazioni hanno creato il Comitato interafricano sulle pratiche pregiudizievoli per la salute delle donne e dei bambini con l’obiettivo di dare vita a campagne di sensibilizzazione e formazione per attivisti locali. Ma è solo a partire dagli anni Novanta che le mutilazioni genitali femminili sono state riconosciute come una grave violazione dei diritti delle donne con una Dichiarazione e un successivo Piano di azione. Gli sforzi internazionali convergono nel documento presentato a dicembre all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, sostenuto dai due terzi dei Paesi membri incluso tutto il Gruppo africano. La risoluzione, votata all’unanimità, caso piuttosto raro a Palazzo di Vetro, definisce le mutilazioni un “abuso irreparabile e irreversibile” e chiedono “di prendere tutte le misure necessarie, inclusa la promulgazione e il rafforzamento di legislazioni che proibiscano le MGF, per proteggere donne e bambine da questo tipo di violenza e porre fine all’impunità”.

Il testo approvato a New York non è vincolante ma ha un grande peso morale e politico ed è dedicato ai Paesi ancora privi di una legislazione e anche dove le leggi che sono state promulgate non proteggono queste donne e bambine. L’Italia, che ha co-sponsorizzato la risoluzione Onu, continuerà a contribuire al programma dell’Unicef per promuovere iniziative mirate, che ha già portato quasi 10.000 comunità in 15 Paesi ad abbandonare le mutilazioni genitali.