di Paola Scaramozzino
(p.scaramozzino@rai.it)
E’ un uomo nero che non fa paura il carbonaio. Una figura che potrebbe entrare in una favola per bambini perché si racconta di lui come di un uomo del passato dai poteri straordinari: una sorta di Efesto, il dio greco del fuoco, capace di dominare le fiamme. A Serra San Bruno, in Calabria, in provincia di Vibo, c’è l’ultima comunità di carbonai, 25 in tutto. A occuparsene già nel 2010 il regista Michelangelo Frammartino che in “Le Quattro Volte”, film premiato a Cannes, evocando l’elemento fuoco, mostra quanta maestria ci vuole per costruire una carbonaia, arruolando fra gli interpreti un maestro di questo lavoro, Artemio Vellone.
“Adesso il mestiere non è quello durissimo che è stato visto nel film, e per fortuna- ci racconta Artemio, 36 anni una famiglia con due bambini. “Oggi le piazzole per fare le carbonaie non sono proprio sulle montagne ma a ridosso del paese. Una volta non era così, ci si trasferiva con tutta la famiglia su in montagna e si viveva lì fino a otto mesi, isolati dal mondo se non per le incursioni domenicali di venditori che venivano nei boschi con un carretto trainato dal mulo, per portarci la spesa”.
“Fare il carbonaio – continua- non è un mestiere che si può imparare a scuola ma lo si apprende di generazione in generazione. Avevo i calzoncini corti quando accompagnavo mio padre a tenere sotto controllo le tante carbonaie che soprattutto nei primi giorni, vanno curate momento per momento, altrimenti la legna prende fuoco e addio carbone. Da piccoli non ci si sale sopra, è pericoloso. Stavo lì, lo guardavo e facevo luce tenendo il lume”.
Carbone che adesso viene usato solo nei ristoranti o per il barbecue ma che una volta, fino agli anni’ 70 serviva per riscaldare le case. Con l’arrivo del petrolio e del gas dei carbonai non c’è stato più bisogno. E così in un altro pezzo di Italia, nel Lazio, ad Acquapendente in provincia di Viterbo, il maestro Alessandro Fani , la generazione dei grandi carbonai di una volta, ha smesso la sua attività da tempo rimanendo però sempre legato al bosco.
“Noi carbonai arrivavamo tutti dalla Toscana e precisamente da Montemignaio, in provincia di Arezzo”, racconta il maestro. “ La nostra era una vita nomade alla ricerca di pezzi di bosco che il padrone comprava per poi far fare le carbonaie. In questa zona c’era un’estensione di moltissimi ettari e così mio padre e mia madre ci si sono fermati”.
- Si ricorda cosa le mancava stando sulla montagna da bambino?
“Niente, non avevamo esigenze. Ci sembrava di avere già tutto nella capanna che si faceva e abbandonava a ogni stagione. Si giocava con i fratelli e l’unico diversivo era scendere al paese la domenica per fare le provviste per tutta la settimana. Quando sono cresciuto, il sabato si andava a ballare. Allora ci lavavamo per bene, per togliere il carbone dal viso, dalle mani e dal corpo. Mi ricordo ancora che malgrado fossi pulito, alla fine della serata rimaneva l’ombra scura della mano sulla spalla della mia dama che, come andava allora, aveva una camicetta di cotone o di lino, bianca candida. La seta costava troppo. Il carbone entrava dentro e lo si trasudava. Ma non faceva male, perché era vegetale”.
Storie diverse in posti diversi ma radici comuni.
“Qui da noi le carbonaie, gli scarrozzi come li chiamiamo, sono di grandi dimensioni. Anche una tonnellata di legna per una resa di due quintali di carbone–ci spiega il carbonaio calabrese - Bisogna fare una sorta di vulcano accatastando fasci di legna della stessa dimensione in un cerchio e via via costruire diverse file aumentando anche in altezza. Alla fine deve rimanere un foro centrale, il camino, da dove si dà fuoco e da dove si controlla la carbonaia. Bisogna pressare terra e foglie sulla carbonaia che non deve avere fessure per far entrare l’aria. I primi tempi bisogna governarla notte e giorno. Ne servono 20 per avere il carbone e poi i tizzoni si spengono con l’acqua. Tanta acqua, fino a 3mila liti ”.
-Come si fa a capire che il carbone e quindi tutta la legna è bruciata?
“Si praticano prima dei fori sulla cupola intorno al camino per far uscire il vapore. La legna si brucia dall’alto verso il basso e i fori seguono la combustione. Tutte fumate bianche come quelle per l’elezione del Papa, ma quando il colore diventa azzurrino, è l’ora”.
Di Natale con la neve ma anche a Ferragosto, Serra San Bruno da lontano appare avvolta nei fumi azzurrini delle carbonaie. Un paese magico.
“Le carbonaie che si facevano qui – racconta il maestro Fani- non erano così grandi come quelle che si fanno in Calabria. Mi ricordo che i vero nemico era il tempo, non tanto la pioggia quanto il vento. Quando si alzava era un correre da un “vulcano” all’altro per mettere delle paratie per non far sviluppare le fiamme. Altrimenti il lavoro andava davvero in fumo. Alla fine il carbone si spegneva allargandolo e buttandoci sopra la terra. Grazie a Claudio Speroni, assessore e educatore all’ Ambiente di Acquapendente, di questo mestiere ne resteranno le tracce perché ha organizzato dei laboratori proprio nei boschi per far vedere e conoscere il mio mestiere ai giovani. Sua sorella Laura ha fatto addirittura una tesi su di me”. “Lo abbiamo fatto diventare professore il nostro Fani”, ci dice scherzando Speroni che ci ha aiutato a metterci in contatto con il mastro carbonaio.
“Questo mestiere significava molto perché bisognava conoscere la legna e la sua resa e quindi un contatto unico con il bosco e poi altri mestieri erano legati al carbone. C’erano i boscaioli che tagliavano gli alberi e i mulari che con il mulo andavano a caricare le balle di materiale, some, per portarle nella case che usavano il carbone per il riscaldamento e per cucinare. Veniva usato anche negli alti forni delle fabbriche di automobili. Era un lavoro pesante ma era anche uno dei pochi che veniva pagato con la moneta al contrario dei contadini che venivano pagati con una parte di ciò che producevano. Non si può dimenticare questo passato e per questo organizzo una sorta di stage itinerante per parlare ai ragazzi anche del mestiere del carbonaio (claudiosperoni.blogspot.com) ”.
Il carbonaio è un mestiere affascinante sul quale si sono tramandate tante dicerie. Come Efesto, si malignava, hanno un brutto carattere, ma i muscoli di acciaio. E forse l’isolamento avrà avuto il suo peso, ma adesso certo non è più così. Le belle foto di Fabrizio Villa mostrano facce affumicate dal carbone da dove sbucano occhi grandi. E mani nere e ruvide seccate dal freddo, dal caldo e dalla polvere che chiude tutti i pori . Neri come il fumo, come la terra del bosco alla quale appartengono e dalla quale non riescono a stare lontani neanche quando smettono di fare i carbonai.
(Le immagini sono del fotoreporter Fabrizio Villa)
Le altre tappe dei mestieri:
Il cappellaio matto
Il Signore delle chiavi
Colui che non fa morire il tempo passato
Lettere di oro zecchino
Liutaio solo per passione
Casa di bambole