di Maurizio Iorio
(maurizio.iorio@rai.it)
C’è un rock padano, nel senso buono del termine, che (soprav)vive sottotraccia, pur avendone lasciate tante, di tracce. Lo si ascolta nel nordest, bianco e/o leghista, dove i rocker vengono ancora visti come eretici Savonarola, meglio sul rogo che a predicare. I due campioni del genere sono Massimo Bubola e Massimo Priviero, entrambi veneti, che avrebbero potuto riempire stadi e palasport, se solo l’Italia fosse un Paese più attrezzato culturalmente, e meno contaminabile dai virus moderecci del momento. Bubola ha appena pubblicato il suo nuovo album, “In alto i cuori”, mentre di Priviero siamo andati a recuperare un lavoro di sei mesi fa, “Folkrock”, inciso insieme al violinista Michele Gazich. Sono entrambi eredi della tradizione americana che parte da Woody Guthrie, passa per Johnny Cash, attraversa Dylan e finisce a Springsteen. Con, in più, le scorie della tradizione italiana del cantautorato d’autore, De Andrè e Guccini in primis.
Massimo Bubola – In alto i cuori (Eccher music)
Se c’è un musicista in Italia che riesce a “curvare le parole” (parole sue) questo è Massimo Bubola, degno erede del maestro dei curvatori, quel Fabrizio De Andrè con il quale il cantautore veronese ha collaborato per anni, scrivendo in simbiosi capolavori come “Andrea”, “Don Raffaè”, “Rimini”, “Fiume Sand Creek”. E che ha donato a Fiorella Mannoia un gioiellino come “Il cielo d’Irlanda”. E’ “Poetika” d’alta scuola, volendo citare Priviero, Perché per Bubola, ma anche per Priviero, musica e poesia camminano a braccetto, sono due forme d’arte reciprocamente osmotiche. Massimo Bubola ha una lunga storia alle spalle, e sulle spalle. Erede poetico di De Andrè e musicale di Bob Dylan, cresciuto in una terra contadina ed affamata, teatro di tante battaglie (l’album “Quel lungo treno” è interamente dedicato alla prima guerra mondiale), memore delle feste contadine, dei canti di montagna e dei racconti partigiani (“Andrea”, “Eurialo e Niso”), Massimo Bubola è il vero cantastorie rock, con in più una ineguagliabile capacità cinematica: le sue canzoni sono mini-sceneggiature, i versi fotogrammi di un clip. “In alto i cuori”, per il quale si sono sperticati in lodi perfino il mensile “Jesus” e l’Osservatore romano (“Da una miscellanea di generi musicali emerge un ritratto amaro della società di oggi. Ma l’ultimo brano, “In alto i cuori”, è una parola di speranza”), ventesimo album del nostro (“Nastro giallo” è del 1976), prende il titolo dalla traduzione del latino liturgico “sursum corda”. Da qui l’entusiasmo, sempre tardivo, della stampa cattolica, che rileva i riferimenti alla tradizione cristiana che percorrono tutto l’album, “che pone una riflessione profonda sull’eterna strage degli innocenti e sulla perdita della cultura del dolore e della pietà, sull’incapacità di stare ai piedi della Croce”. Il brano d’apertura, “Hanno sparato a un angelo”, è un istant song, che prende lo spunto dall’uccisione del cinese Zhou Zeng e della sua figlioletta Joy avvenuto a Roma lo scorso anno. Poi è un avvicendarsi di melodie semplici e dal piglio ritmico della classica ballad americana, ma con i riferimenti poetici e simbolici tipici della nostra cultura millenaria. Che va a scontrarsi con quella evanescente del “Paese finto” (E’ un paese finto, finto anche il cuore/così finto che non riesci più a capire//che cosa è finto, la Verità è nemica/finta più della tv, è ormai la vita”), con le aspettative artificiali e la rarefazione dei sentimenti di “Analogico-digitale” (scritta con Beppe Grillo), con le pulsioni ribellistiche di “A morte i tiranni”( E siamo sempre qui/su queste barricate/formate da tv/e radio abbandonate/a combattere col Regno/ dei Grandi disinganni/a urlare la stessa frase/da diecimila anni/ a morte i tiranni!”). Se per Bubola la perdita della spiritualità è uno dei mali dei nostri tempi, alla fine del tunnel brilla ancora la fiammella della speranza, tenuta accesa dalle perdite affettive (“Lacrime parallele”), dalla fiducia nelle nuove generazioni (“Al capolinea dei sogni”: ‘in Paradiso c’è la mappa di un posto/dove si azzerano i conti/c’è una corriera che porta lassù/al capolinea dei sogni’). Dulcis in fundo, la title-trach, splendida ballata, romantica e malinconica, con l’organo Hammond a tessere le trame in sottofondo, una preghiera a non arrendersi mai, ad accendere di nuovo il juke-box dei sogni, a tenere alti i cuori quando “tutto brucia/ed il fuoco non si ferma più/ in alto i cuori/ quando tutto è perduto/in alto i cuori, portali lassù/ in un paese che non brilla più”.
Massimo Priviero Michele Gazich – Folkrock (Dvl)
Troppo italiano per essere americano, troppo americano per essere italiano. Per questo, forse, Massimo Priviero, da Iesolo, classe 1962, è rimasto a metà del guado. Quasi un apolide, musicalmente parlando. Sconosciuto ai più. Lui, che poteva riempire gli stadi al pari di Vasco e Ligabue, suona invece da una vita nei piccoli club, quasi sempre del nord, metà terra promessa e metà terra bastarda. Crescere rocker in una landa bianco-leghista è come scalare l’Everest senza piccozza, e con il vento contro. Si fatica il doppio. Il ragazzo (quand’era ragazzo) rimase fulminato da “Born to run” di Springsteen: “Lì mi si è accesa la lampadina e non si è più spenta”. Ipse dixit. Non a caso il suo secondo album, “Nessuna resa mai” (1988), un autentico capolavoro, oltre che manifesto musical-programmatico del nostro, fu prodotto da Miami Steve Van Zandt, braccio destro del Boss, e vide la collaborazione di un paio di Pfm, Fabio Premoli e Lucio Fabbri. Il successo era a portata di mano, si poteva quasi toccare, eppure qualche granello di polvere ha bloccato l’ingranaggio, e Priviero si è trovato relegato nelle retrovie, pur disseminando l’etere di perle rare (“Fragole a Milano”, “Grande mare” , Nessuna resa mai”, “La strada del Davai”, “Nicolajevka”, “Lettera al figlio”, ispirata alla poesia di Kipling, “If”). Per farla breve, in attesa del suo nuovo album di inediti che uscirà quest’anno, abbiamo recuperato “Folkrock”, pubblicato a metà del 2012, in società con il violinista Michele Gazich, già nella Eccher band di Massimo Bubola, che rivela le ascendenze musicali dei due compagni di viaggio. In quarta di copertina c’è la filosofia del progetto. Tanto vale riportare le parole degli autori, senza doversele inventare di sana pianta: “Un magico viaggio dentro un pugno di meravigliose canzoni. Brani densi di poesia, frammenti di vita e di esistenze, ma anche racconto di conflitti e di rivendicazioni che hanno segnato un’epoca. Dopo queste canzoni, nulla, nella musica ma anche nella vita d’intere generazioni, è stato più come prima. Queste canzoni sono vere e proprie opere d’arte. L’arte che scavalca il tempo per colpirti al cuore oggi e domani con la stessa intensità”. E così, mentre Priviero ci dà dentro con la sua voce intrisa d’asfalto e bourbon e Gazich disegna arabeschi con il suo violino, scorrono “The house of the rising sun (Animals), “Thunder Road” (Springsteen), “Hard rain’s a-gonna fall” (Dylan), “Give my love to Rose” (Johnny Cash), “Before the deluge” (Jackson Browne), “Helpless” (Neil Young), “Mr. Bojangles” (Jerry Jeff Walker), e l’interminabile “And the healing has begun” (Van Morrison). Un piccolo caravanserraglio dell’essenziale.