di Rodolfo Fellini
(r.fellini@rai.it)
Il governo di Parigi promette che sarà una guerra-lampo e la comunità internazionale, con il Consiglio di sicurezza in testa, ne avalla la legittimità. Le operazioni contro i gruppi di estremisti islamici, che da 9 mesi occupano il Mali centrosettentrionale, erano da tempo nell’aria e non trovano resistenze nello scacchiere mondiale. Londra e Washington si sono subito dette pronte a sostenere Parigi in una lotta che fin qui ha combattuto quasi da sola. La Nigeria, che nel suo Nord conosce i rischi concreti dell’estremismo islamico, ha annunciato l’invio di un proprio contingente militare, così come gli altri 14 Paesi dell’Africa occidentale (Ecowas). La posta in gioco è altissima: evitare che nella zona del Sahel si rafforzi il presidio di un nuovo terrorismo, che potrebbe espandersi a tutta l’Africa occidentale. L’Unione europea guarda già oltre, come conferma il solerte varo di una missione di assistenza umanitaria e addestramento dell’esercito regolare maliano, che ipoteca così un futuro da alleato fedele per il Mali. La questione del ritorno alla democrazia non sembra per ora essere all’ordine del giorno. Nel vicino Burkina Faso, Paese che nella mediazione dei conflitti regionali ha trovato un’identità, dovrebbero prendere il via a giorni i negoziati tra gli islamici di Ansar Eddine, i ribelli Tuareg dell’Mnla e le autorità attualmente al potere a Bamako. Lo scopo è trovare, attraverso il dialogo, i fondamenti di una pace duratura, ancorché difficile. Nel Mali della fame, della musica e dei campi di cotone, si cerca oggi una soluzione che possa essere un modello per le crisi latenti o già esplose e mai ricomposte in altri Paesi della regione. Ma il processo si preannuncia lungo e laborioso.
Una partita con troppi attori
La crisi nel Nord del Mali affonda le sue radici nella questione dei Tuareg, i nomadi del deserto, che da sempre lamentano lo scarso interesse riservato loro dalle dirigenze di Mali, Algeria e Niger. Il loro primo tentativo di staccarsi da Bamako risale ai primi anni ’90. Oggi, le istanze dei Tuareg sono rappresentate dall’Mnla, movimento che un anno fa dà il via alla rivolta secessionista nel Nord. Dopo due mesi, l’esercito accusa il governo di Bamako di lassismo nei confronti dei ribelli e attua un colpo di Stato. Il capitano Amadou Haya Sanogo destituisce il presidente e il premier democraticamente eletti e assume il potere a Bamako, ma dopo alcune settimane affida la presidenza ad interim al capo del Parlamento, Dioncounda Traoré. Mentre la partita politica si gioca nella capitale, posta nell’estremo Sud del Paese, al Nord, in una delle zone più povere e meno densamente popolate del pianeta, la battaglia per l’indipendenza riprende vigore, ma con nuovi protagonisti. L’’Mnla, indebolito, viene sopraffatto da Al Qaeda nel Maghreb islamico, dai jihaidisti del Mujao e dai “Difensori dell’Islam” di Ansar Eddine, che approfittano delle distrazioni politiche dei militari e riescono a scalzarli in tutto il Nord.
Dall’aprile 2012, tutta l’area centro-settentrionale, pari a circa tre quinti del Paese, diventa una sorta di califfato, in mano alle tre formazioni islamiche. Tra i leader degli estremisti emerge Iyad Ag Ghaly, figura ambigua, ritenuta vicina al deposto governo maliano ma anche ai servizi di sicurezza algerini, che in passato guidò varie rivolte Tuareg ma poi, vittima di faide interne, decise di fondare Ansar Eddine, portandosi dietro le frange più estremiste dei Tuareg. Il fiore all’occhiello di Ghaly rimane la presa di Timbuctù, ex capitale del Paese e centro di enorme rilievo politico, culturale e religioso per l’intero Sahel. Per diversi mesi, la situazione sembra stabilizzarsi, e vige una sorta di tregua “de facto”: a Nord di Timbuctù, gli islamici; a Sud, i militari e le autorità civili di Bamako. Soltanto di recente, l’improvvisa avanzata degli islamici verso Sud convince il presidente pro tempore, Traoré, a chiedere assistenza militare alla Francia, presente nelle ex colonie della regione con circa cinquemila uomini: quanti ne conta, in tutto, il fragile esercito maliano. Il presidente francese, Hollande, risponde prontamente con 750 uomini, destinati ad aumentare nelle settimane successive. L’appello di Traoré è avallato dagli accordi bilaterali franco-maliani in tema di difesa ma non, come sostengono le autorità, dalla risoluzione 2085 dell’Onu, che autorizza il dispiegamento di una forza africana nel Paese per un periodo di un anno e riserva all’Europa (e non alla Francia) competenze esclusivamente finanziarie e logistiche. Nel frattempo, i ribelli Tuareg dell’Mnla, ormai fuori gioco, rinunciano a ogni velleità secessionistica e si dichiarano pronti a collaborare con la Francia e con l’esercito di Bamako in cambio di una promessa di autonomia. I raid aerei di questi giorni, dunque, sono letti da alcuni come una forzatura, da altri come una logica, prevedibile conseguenza di una crisi interna ma dai risvolti internazionali evidenti.
La scommessa di “Monsieur Normal”
François Hollande, assurto in brevissimo tempo a protagonista assoluto della crisi, attraversa in patria un momento di difficoltà, principalmente in virtù di un doppio fronte che rischia di affondare i suoi cavalli di battaglia elettorali. Da un lato, la Corte suprema ha definito incostituzionale l’aumento delle tasse fino al 75% per i redditi oltre il milione di euro; dall’altro, il provvedimento che estende l’istituto del matrimonio alle coppie omosessuali sta trovando un’opposizione popolare molto al di sopra delle aspettative. La provvidenziale richiesta di aiuto di Traoré è arrivata quasi come un salvagente per “Monsieur Normal” che, scavalcando il Parlamento, ha immediatamente deciso di assecondare la richiesta e intervenire militarmente nell’ex colonia, spostando gli orizzonti dell’opinione pubblica francese. Hollande ha tutto l’interesse a concludere le operazioni quanto prima, per lasciare poi spazio alla forza di stabilizzazione africana prevista dalla Risoluzione Onu e far rientrare i propri blindati nelle caserme della Costa d’Avorio, altra terra in cerca di stabilità in cui la Francia ha avuto e sta avendo un ruolo di primo piano.
La strategia africana del capo dell’Eliseo sembra ispirarsi a prima vista a quanto già fatto dal suo predecessore, Sarkozy, che fu il primo a proporre e attuare i raid contro Gheddafi in Libia, traendone evidenti vantaggi politici e, soprattutto, in termini di contratti per le aziende francesi. Ma, a differenza di Sarkozy, Hollande ha mostrato fin dall’inizio del suo mandato un forte interessamento nei confronti del Maghreb e, più in generale, delle ex colonie francesi. Lo testimonia lo storico viaggio, compiuto in un’Algeria minacciata da frange salafite confluite in Al Qaeda nel Maghreb islamico, e il blitz, poi fallito, per liberare un ostaggio francese in Somalia. In particolare, la visita dello scorso dicembre ad Algeri, nel cinquantenario dell’indipendenza, ha suggellato tre anni di consultazioni e colloqui tra il leader socialista e il presidente Buteflika. “Condanniamo senza appello il regime coloniale, che per sua natura non può avere nulla di positivo, poiché consiste nell’occupazione e lo sfruttamento di un Paese da parte di un altro, è un sistema iniquo e brutale”: parole rivoluzionarie, se pronunciate da un erede del generale De Gaulle. Hollande ha pubblicamente riconosciuto le “sofferenze” inflitte dalla Francia al popolo algerino ed ha propugnato una partnership strategica negli ambiti “economico, culturale, agricolo e della difesa”. Voltare definitivamente pagina e riappacificarsi con l’Algeria sembra per l’Eliseo una priorità assoluta, il primo passo di un processo più ampio, che mira a rafforzare i legami euro-mediterranei con quei Paesi in cui le nascenti democrazie non garantiscono più all’Occidente la stessa affidabilità dei deposti regimi dittatoriali. In un simile processo, una Francia che conta il 10% di musulmani provenienti dalle ex colonie ha tutto da guadagnare. “Monsieur Normal” può davvero ritagliarsi un ruolo nuovo.