di Nello Rega
(n.rega@rai.it)
Una vera e propria sferzata nazionalista. Il prossimo Parlamento israeliano, quello che uscirà delle elezioni anticipate di martedì prossimo, al di là della spartizione dei 120 seggi in palio, sarà probabilmente guidato dai partiti di destra. E questo potrebbe segnare un profondo cambiamento della politica nei confronti di Iran e Autorità palestinese.
Proprio nel momento in cui l’Onu, con un voto senza precedenti, ha riconosciuto l’Anp come Stato osservatore e sancito la leadership di Abu Mazen, Israele si appresta a una ferma risposta nel segreto dell’urna. I giochi non sono, comunque, ancora fatti. Se da una parte è scontata la riconferma di Netanyahu alla guida del governo, tutt’altro che chiara è la composizione del prossimo esecutivo.
Secondo i sondaggi, l’alleanza Likud-Yisrael Beitenou (di Netanyahu e dell’ex ministro degli Esteri Lieberman, incriminato per frode e abuso di ufficio) potrebbe ottenere 38 seggi, seguita dai laburisti con 16. Terzo partito Habayit Hayehudi (Casa ebraica) dell’astro nascente della destra, Naftali Bennet, indicato con 13 seggi. Seguono gli ultraortodossi dello Shas con 12, il partito laico Yesh Atid con 8 e il nuovo partito Hatnua dell’ex ministro degli Esteri Tzipi Livni con 7. A seguire gli ultraortodossi di Torah Unita nel Giudaismo con 6 e i pacifisti di Meretz con 5. I tre partiti arabo-israeliani dovrebbero conquistare in tutto 7 deputati, mentre il partito di centro Kadima sembra destinato al crollo con soli 3 seggi.
Secondo gli analisti, il Likud-Beiteinu alleandosi con gli altri partiti di destra e religiosi dovrebbe superare quota 61 seggi, che gli garantirebbero la maggioranza. Nel 2009 vinse il partito di centro Kadima ma non riuscì a formare un governo. Alla guida dell’esecutivo arrivò Netanyhau forte di un accordo con Shar e Israel Beiteinu.
Le intenzioni di voto sembrano non essere intaccate neanche dallo scambio di accuse tra i principali attori della politica e delle istituzioni del Paese. Come l’esternazione del presidente della Repubblica, Shimon Peres, con la quale ha espresso la sua frustrazione per la situazione di stallo in cui si trova il processo di pace con i palestinesi, o l’attacco senza precedenti al premier da parte dell’ex capo dello Shin Bet (il servizio di sicurezza interno) Yuval Diskin: “Netanyahu è prigioniero di paure e incertezze. E’ un opportunista, privo della capacità di dare un esempio personale come leader. Aperto a idee fantastiche e messianiche, che lasciano a bocca aperta, con un allarmismo non motivato”. Anche l’ex premier Olmert non ha risparmiato accuse a chi, secondo lui, ha innescato un processo di paura nella popolazione.
“Il governo ha sperperato negli ultimi due anni l’equivalente di oltre due miliardi di euro per progetti militari di pura fantasia e avventurosi”. Colpi “bassi” che non hanno scalfito minimamente la macchina elettorale di Netanyahu. Anzi. Nelle ultime settimane l’avanzata del premier e dei suoi “compagni” di destra e ultradestra è proseguita. Forte anche dell’ondata di nazionalismo che sta permeando la vigilia del voto.
E’ il caso di Bennet, deciso oppositore della nascita di uno Stato palestinese. Fino allo scorso novembre, quando è stato eletto alla guida del piccolo partito religioso nazionalista “Habait Hayehudi” (Casa Ebraica), era un nome sconosciuto alla maggioranza degli israeliani. Ora, secondo i sondaggi, si avvia a diventare leader del terzo partito del paese. Nella sua visione, la nascita di uno Stato palestinese sarebbe un “suicidio” per Israele e va decisamente contrastata. Inoltre bisognerebbe annettere la zona C della Cisgiordania, un’area che costituisce circa il 60% della West Bank, compresa la Valle del Giordano e la maggior parte degli insediamenti. I 50 mila “arabi” (Bennet evita il termine palestinesi) che vi abitano potrebbero chiedere la nazionalità israeliana. Ai palestinesi delle aree A e B verrebbe concessa solo un’autonomia limitata.
Da parte sua Netanyahu, pur ribadendo l’obiettivo di una pace con due Stati, sta cavalcando le ragioni dei coloni ma, al tempo stesso, prosegue con la politica delle “barriere”. Dal Golan al Sinai, Israele deve difendersi con barriere contro l’avanzata della Jihad mondiale. E così il premier nel bel mezzo della campagna elettorale ha fatto un sopralluogo lungo la linea di confine con il Sinai egiziano. Due anni fa c’era solo deserto: oggi c’è una moderna e solida barriera di 230 chilometri che serve a scongiurare “l’infiltrazione in Israele dei terroristi”. E lo stesso sarà fatto nel Golan, al confine con la Siria. I primi 4 chilometri sono stati già completati, ne restano altri 54. L’opera dovrebbe essere ultimata nei prossimi mesi.
Sul versante opposto, sembra scontato che le tre liste di centro-sinistra non saranno compatte per essere l’anti-Likud. Restano distanti, infatti, le posizioni dei tre leader contro il partito del premier e degli alleati dell’ex ministro degli Esteri Lieberman. In questo clima più che rovente, forse il più infuocato degli ultimi decenni, Ue e Stati Uniti non stanno a guardare. Secondo fonti bene informate, l’Unione europea dovrebbe a breve rilanciare trattative serrate tra Israele e Anp, nel tentativo di costituire in tempi brevi uno Stato palestinese indipendente lungo le linee precedenti alla guerra del 1967, con possibili scambi di territori. I 27 potrebbero anche esigere il congelamento della colonizzazione. E la Casa Bianca, favorevole a questa ipotesi, sta già tastando il terreno con i suoi inviati e il nuovo Segretario di Stato John Kerry. In questo scenario, dove i più interessati al risultato delle elezioni sembrano gli “alleati di sempre” di Israele e non i vicini arabi, il nuovo governo potrebbe trovarsi “stretto nell’angolo”. A questo si aggiunge anche la situazione in Siria, che ha congelato le opzioni più dure degli Stati Uniti contro l’Iran. Le sorti del regime di Damasco giocheranno un ruolo fondamentale nella partita a scacchi sul nucleare degli ayatollah.
“La logica della forza che contraddistingue il governo di Israele renderà il Paese sempre più isolato dal resto della regione”, ha affermato il re giordano Abdallah II. Un monito o un auspicio? Di fatto una realistica fotografia. Alla quale fa eco il sondaggio di Global Peace Index: il 67% degli israeliani non crede che il prossimo governo farà la pace con i palestinesi, indipendentemente dal risultato del 22 gennaio, perché i negoziati sono in stallo per motivi che non dipendono in alcun modo da Israele. Messaggio forte e chiaro per Obama, Unione europea, Onu, Paesi arabi e Abu Mazen.
(Nella foto: Avigdor Lieberman e Benjamin Netanyahu)