di Fabrizio de Jorio
(fa.dejorio@rai.it)
“Auspico che le forze politiche che tra breve saranno impegnate nella campagna elettorale mettano il problema della mafia e delle strategie su come contrastarla al centro del programma con il quale si presentano a correre per la prossima legislatura: è un fenomeno complesso che riguarda l'economia e la società e la politica deve spiegare che cosa intende fare". Così il procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso, parlando a margine di un convegno “Su mafia e informazione”, organizzato dall’Osservatorio Ossigeno per l’Informazione e da Stampa Romana e dall’Università Tor Vergata, svoltosi al Senato nella sala dedicata ai Caduti di Nassirya.
Presenti anche il giornalista dell'Espresso Lirio Abate, che dopo aver denunciato le collusioni tra politici e mafia, vive sotto scorta, il senatore Enrico Musso, membro della Commissione parlamentare antimafia e presidente del comitato Scuola e Legalità della commissione stessa, Paolo Butturini,segretario dell'associazione Stampa Romana, il direttore dell’Osservatorio Ossigeno per l’Informazione, Alberto Spampinato e Giuseppe Mennella, direttore della Cattedra di Deontologia del Giornalismo dell’Università di Tor Vergata.
Spampinato: a dicembre di quest’anno sono 301 i giornalisti minacciati e intimiditi dalle mafie. Tra le riforme sollecitate da Ossigeno, la depenalizzazione della diffamazione a mezzo stampa e la copertura delle spese legali
“In Italia gli abusi e le minacce sui giornalisti che raccontano i fatti di mafia sono in aumento di anno in anno”. Lo ha denunciato Spampinato, direttore dell’Osservatorio Ossigeno, nel suo intervento citando i dati del dossier realizzato dall’Osservatorio
Fino ai primi di dicembre 2012 “i giornalisti italiani coinvolti in episodi di minacce collegate a motivi professionali per aver fatto il loro mestiere di informare con inchieste e articoli sono 301”. In 43 casi, le minacce sono state rivolte a intere redazioni.
"Quattro anni fa - ha spiegato Spampinato - abbiamo iniziato a raccogliere un dossier sulle intimidazioni ai giornalisti, ma ancora oggi è difficile far capire la gravità della situazione. Bisognerebbe sempre tenere presente che non riusciamo ancora a sconfiggere la mafia perché non c'è, nell'opinione pubblica, l’adeguata percezione culturale di questo fenomeno che ha, tra le sue attività prioritarie, quella di oscurare le informazioni che la riguardano". In effetti la maggior parte delle minacce e intimidazioni sono “facilitate” dal fatto che i giornalisti, oltre alle querele, vengono citati in giudizio civile per risarcimenti milionari al solo fine di impaurire le testate per le quali lavorano, soprattutto quelle di provincia le cui capacità di sostenere le spese legali è assai inferiore rispetto alle grandi testate. Per risolvere questi problemi, Spampinato ritiene “necessarie alcune riforme legislative, a costo zero, che si potrebbero approvare in poche settimane”. Tra queste la depenalizzazione del reato di diffamazione a mezzo stampa, la copertura delle spese legali, la disciplina delle rettifiche e la limitazione della richiesta di risarcimenti.
"Se la Rai - ha proseguito Spampinato - spendesse per fare informazione e approfondimenti sulla criminalità organizzata gli stessi soldi che spende per seguire le partite di calcio, si dimezzerebbe il tempo che ci separa dalla sconfitta delle mafie".
Butturini ha assicurato su questo fronte “ci sarà un sempre maggiore impegno del sindacato” sottolineando che le pressioni mafiose contro la libera informazione "non sono solo un crimine perseguito dal codice penale, ma un attentato contro l'articolo 21 della Costituzione in quanto il condizionamento su chi fa inchieste che svelano gli 'affari' di cosa nostra, è un modo di impedire ai cittadini di vivere appieno la vita del loro paese".
Lirio Abbate: la mafia si può battere con la buona informazione
"L'informazione aiuta a sconfiggere la mafia". Così Lirio Abbate, giornalista dell'Espresso, che dal 2007 vive sotto scorta dopo le minacce di morte seguite alle inchieste sugli intrecci tra il boss Bernardo Provenzano e alcuni politici siciliani. "Mettere in evidenza sui giornali, rendere pubblici gli affari dei mafiosi può essere uno strumento talvolta più efficace di un avviso di garanzia o di un processo. I mafiosi e i loro compari temono di più se smascheri e racconti le amicizie, gli affari leciti, i professionisti dei quali si avvalgono, se indaghi sul contesto sociale nel quale si muovono, perché questo provoca un danno di immagine anche ai colletti bianchi con i quali la mafia fa affari”. Abbate nella recente inchiesta su L’Espresso, ha raccontato anche uno spaccato della malavita romana e indagato sui 4 boss che si sono spartiti Roma in 4 aree di influenza e che sono in affari con la ‘ndrangheta.
“Alcuni colleghi mi hanno mandato dei messaggi complimentandosi per l’inchiesta ma sottolineando che loro al posto mio avrebbero avuto paura a scrivere sui boss che gestiscono la città nella quale vivono e lavorano”. Questa è una realtà nella quale lavorano molti giornalisti, non solo nelle aree a rischio mafia, ma anche nella capitale dove le mafie,da anni ormai, hanno colonizzato il tessuto imprenditoriale e anche quello politico. “La cosa più sconcertante –confessa Abbate- è sapere di essere sotto osservazione dalla criminalità e di rischiare quindi la tua vita semplicemente perché fai il tuo lavoro di cronista”. I dati sui giornalisti minacciati "forniscono un quadro desolante - ha detto- e non bisogna dimenticare che il gruppo L’Espresso ogni anno subisce circa 380 citazioni in giudizio e ne esce vittorioso quasi il 100% delle volte. In pratica, nell'ultimo anno è uscito indenne da378 cause civili e per questo bisognerebbe porre un freno alle liti temerarie che hanno il solo obiettivo di fermare le inchieste scomode”.
Grasso: “La mafia pretende il silenzio per questo hanno ucciso il giornalista Mario Francese. Il suicidio del figlio Giuseppe lo considero un omicidio di mafia”
“La mafia pretende il silenzio e mal digerisce i giornalisti scomodi.- dice Grasso - e tra questi uno che mi è particolarmente caro è Mario Francese, del quale ho un ricordo personale. Ogni mattina passava nelle mia stanza quando ero un giovane sostituto procuratore a Palermo. Si sedeva davanti la mia scrivania e con fare scherzoso, aprendo il taccuino, mi chiedeva: ‘C’è niente? Qual è il menù di oggi? Mario Francese era un vero giornalista investigativo: a Palermo aveva capito e denunciato la trasformazione imprenditoriale dei Corleonesi e le infiltrazioni negli appalti pubblici, aveva intuito, anticipato e scoperto relazioni e collegamenti allora insospettabili, come i cugini Salvo tra la mafia siciliana e la politica. Ma i suoi dossier sono stati pubblicati dal suo giornale solo dopo la sua morte”.
Grasso nel suo intervento si sofferma sull’omicidio a Palermo nel 1979 di Mario Francese e del dramma del suicidio del figlio Giuseppe, anche lui giornalista. “Giuseppe aveva 12 anni quando vide il corpo del padre colpito a morte sotto casa. Sentì i sei colpi di pistola e scese sotto in strada ma solo quando arrivò qualcuno del giornale dove lavorava il padre seppe di chi era quel corpo steso sotto il parcheggio e coperto da un telo. Per venti anni ha condotto numerose inchieste, cercato testimonianze, raccolto materiale, restando sempre in contatto con la procura di Palermo, fornendo tutti gli appunti del padre per arrivare alla verità, ai mandanti ed esecutori dell’omicidio del papà Mario”. Ma la sua vita si è interrotta prematuramente: “nel 2002- aggiunge Grasso - dopo la condanna del cognato di Totò Riina, Leoluca Bagarella, esecutore materiale del delitto e metà dei membri della Cupola mafiosa, lo stesso Riina, Michele Greco, Bernardo Provenzano e Francesco Madonia, Giuseppe si è tolto la vita.
Il giorno dopo la sentenza di condanna di primo grado, Giuseppe scrive un biglietto: ‘ Ho svolto il mio compito, ho fatto il mio dovere, vi abbraccio tutti, scusatemi ’ e si uccide. Questo suicidio lo considero un omicidio di mafia: quando un giornalista si toglie la vita perché sa che pende sulla sua testa una condanna di morte, per me è il nono giornalista ucciso in Sicilia dalla mafia”.
Non è un segreto che la mafia tema l’opinione pubblica, forse più delle inchieste giudiziarie: per questo, oltre alle intimidazioni ai giornalisti, da anni oramai, assistiamo al fenomeno delle querele temerarie e le citazioni in giudizio per risarcimenti milionari da parte degli avvocati dei mafiosi.
A questo proposito il procuratore Grasso ha lanciato la proposta "di una legge, da studiare, da approfondire, che abbia l'obiettivo di sanzionare chi ostacola la libertà di informazione". Ma anche il “crescendo di minacce e intimidazioni ai giornalisti italiani, non può non suscitare allarme sull’esercizio della libertà di cronaca e sul diritto dei cittadini di essere informati”.
Per Grasso la mafia teme l'opinione pubblica quanto quella giudiziaria", lo dimostra “l'uccisione di molte persone che con la loro attività hanno cercato di ridurre l'egemonia mafiosa sul piano culturale e sociale", come ad esempio don Puglisi”, ucciso nel 1993 dai sicari della mafia, tra cui Gaspare Spatuzza, poi diventato collaboratore di giustizia che in carcere ha intrapreso un cammino verso la fede.
Enrico Musso: “Le audizioni alla Commissione parlamentare antimafia dei giornalisti minacciati dalla mafia, rivelano che oltre alle intimidazioni e le minacce, i giornalisti subiscono anche pressioni politiche per non pubblicare inchieste e notizie scomode”
Il senatore Enrico Musso, presidente del Comitato scuola e legalità della Commissione parlamentare antimafia, che ha partecipato alle audizioni di giornalisti della Sicilia, Calabria e Campania, che hanno subito minacce e intimidazioni per le loro inchieste sulla mafia. Musso ha reso noto che "sono state declassificate dalla secretazione le audizioni dei giornalisti sull'informazione svolto in questa legislatura e abbiamo scoperto un 'sottobosco' di fenomeni meno gravi delle minacce di morte ricevute ma che, ugualmente, colpiscono i giornalisti che fanno inchieste sulle mafie, ai quali viene intaccato il reddito, la qualità della vita e la reputazione". Musso ha sottolineato che "c'è un'informazione non protetta, quella che viene fatta dai cronisti che non lavorano nelle grandi testate, che spesso sono precari e che subiscono i condizionamento anche dalla proprietà della testata che, a sua volta, subisce pressioni politiche". Secondo Musso, sarebbe necessario tutelare questa 'fascia' non protetta di giornalisti con misure a sostegno dei loro contratti, delle retribuzioni ed equiparando i pubblicisti ai giornalisti professionisti per quanto riguarda l'estensione del segreto professionale".
Per Musso il lavoro dei cronisti in aree a rischio è molto difficile anche per le “pressioni politiche” ai quali sono “esposti i giornalisti e le testate per le quali lavorano”. Emblematico il contenuto di una audizione di due giornalisti calabresi: Antonino Monteleone e Nerina Gatti i quali hanno denunciato, come ha riferito il senatore, “oltre a minacce e intimidazioni, un clima di forti pressioni politiche, di episodi come quello di essere cacciati dalla conferenza stampa di amministratori e politici solo per aver fatto domande sgradite” in un contesto permeato dalla ‘ndrangheta tanti che recentemente il comune di Reggio Calabria, dove lavorano i giornalisti uditi dalla commissione, è stato sciolto per infiltrazioni mafiose. Al giornalista Monteleone, oltre alla macchina incendiata nel 2010, recentemente è stata recapitata una busta con un proiettile a casa. La giornalista Nerina Gatti nella sua audizione ha denunciato forti pressioni politiche per non farla partecipare a programmi televisivi ma anche altre forme di pressione come le querele e le richieste di risarcimento danni da parte di mafiosi o di affiliati del clan. In un caso le intimidazioni si sono spinte fino a mandare l’avvocato di un mafioso a “consigliare” alla giornalista di non continuare a scrivere sulle cosche…
Musso, ex parlamentare del PdL, ora al gruppo misto, spiega che dalle audizioni svolte dal comitato da lui presieduto "è emersa una realtà preoccupante per quanto riguarda le intimidazioni, diverse dalle minacce alla vita, che subiscono tanti cronisti, soprattutto nelle società editoriali minori, e che ne mettono a repentaglio la qualità della vita, le retribuzioni, i contratti di lavoro" e per questo sarebbe necessario "predisporre tutele per questi cronisti minacciati 'in modo minore"', intervenendo "sulle tipologie del contratto, sulle retribuzioni ed estendendo il ricorso al segreto professionale ai pubblicisti".
Il procuratore antimafia Grasso, sollecitato dalla tante domande ha sottolineato come "in Italia anche se è triste dirlo, bisogna prendere atto che ci sono regioni in cui un giornalista che descrive la realtà senza veli rischia la vita". La mafia, rileva Grasso, “si è adeguata ai fenomeni di comunicazione di massa, è presente nei social network e cerca, come ha sempre fatto di "condizionare l'informazione". Per decenni "la criminalità mafiosa ha avuto capacità di seduzione colmando difetti, lacune, povertà nati dall'assenza delle istituzioni ma anche dell'informazione. Non abbiamo saputo organizzare- sottolinea- una risposta culturale contro la mafia così che il connubio tra mafia economia e potere diventa sempre più forte nel limitare la libertà dei cittadini. La mafia – ribadisce Grasso- va combattuta con ogni mezzo perchè i mafiosi sono dei criminali che non fanno sconti".