di Maurizio Iorio
(maurizio.iorio@rai.it) David Byrne & St Vincent – Love this giant (Bmg)
Bell’accoppiata quella fra l’ex Talking Heads David Byrne e St Vincent, all’anagrafe Annie Clarke, da Tulsa, Oklahoma, una delle più belle voci femminili del pop “colto” contemporaneo. Fra i due ci passano trent’anni, ma solo d’età. Il vecchio guru della new wave newyorkese si è divertito molto a duettare con la multi strumentista dagli occhi di cerbiatta. Una strana accoppiata, che ha dovuto fare i conti anche con l’idea originale (di lei) di farsi spalleggiare una sezione di ottoni. Alla fin fine è difficile trovare una definizione esauriente per catalogare “Love this giant”, il progetto che i due improbabili sodali hanno appena realizzato. Art rock? New wave 2.0 ? Pop cosmico? L’unico dato certo è che entrambi hanno avuto un approccio “altro” alla musica, seppur con stili e linguaggi diversi. E questo approccio si rispecchia appieno in questa strana opera a due, dove gli ottoni contrappuntano ogni canzone fin quasi all’invadenza, i sintetizzatori e il drum programming si innestano su stilizzati ritmi jungle, le melodie si scompongono e ricompongono in fratture sonore che , a come ha confessato Byrne al londinese Guardian , sono un modo per ironizzare sulla loro differenza anagrafica. Lo si intuisce già dalla cover, nella quale lui viene rappresentato come un damerino e lei, con la mascella deformata, come una neo-Crudelia Demon. “L’idea è quella della bella e la bestia, con i ruoli rovesciati, io come una bellezza plastica e lei come una belva feroce. E’ stato un modo per giocare con la nostra differenza d’età, anche se ovviamente non è servito a neutralizzarla”. Se c’è un limite, in “Love this giant”, è la mancata fusione delle voci. Byrne e Annie Clarke si alternano come solisti, duettano solo nel brano d’apertura, “Who”, anche se dieci delle dodici canzoni sono firmate a quattro mani. Per questo rimane l’idea di un sodalizio incompiuto che forse, la prossima volta, i due completeranno. Comunque, fra trombe, tromboni, corni, fughe elettroniche, ritmi afrocubani (poco), neoclassicismi alla Michael Nyman, ce n’è abbastanza per soddisfare i palati fini. O sopraffini. Martha Wainwright - Come home to mama (V2)
“Come home to mama” è l’ elaborazione di un lutto. Quello per Kate McGarrigle, folksinger canadese, madre di Martha e del più famoso Rufus, ed ex-moglie di Loudon Wainwright III, anch’egli folksinger, ovviamente semisconosciuto in Italia. Una tale genìa non poteva che mettere al mondo una discendenza all’altezza dei fasti familiari. Rufus Waiwright è già asceso nell’Olimpo del cantautorato neo-folk, la sorella sta costruendo i primi gradini della scala. “Come home to mama”, come si evince da titolo, è dedicato alla madre, la cui scomparsa nel 2010 ha segnato profondamente Martha Waiwright. L’omaggio più sentito è il quarto brano della tracklist, “Proserpina”, lasciato in eredità dalla McGarrigle, e qui reinterpretato dalla figlia in modo magistrale. Proserpina, figlia di Cerere, fu rapita da Plutone e poi liberata da Giove, a patto che trascorresse sei mesi l’anno con il rapitore. Per questo Cerere, quando la ragazza era lontana, faceva scendere sul mondo il buio ed il gelo, per manifestare il proprio dolore. Per questo l’album è avvolto in un velo di malinconia, che però non rappresenta la consapevolezza di una perdita, ma è piuttosto il via libera per la risalita in superficie dopo un giro negli Inferi. In “Come home to mama” c’è molto della vita privata di Martha Waiwright, il matrimonio, il primo difficile parto, la morte della madre. E’ una sorta di musico-terapia, con un approccio vocale alla Kate Bush, con le tastiere che dominano sulle chitarre, con i rimandi ad Edit Piaf, con il pop d’autore e le influenze paterne, con le forzature della producer Yuka Honda (l’album è stato registrato nello studio newyorkese di Julian lennon), che ha represso il desiderio di esuberanze sonore. E’ un album che guarda avanti tenendo ben a mente il passato, “senza comprendere il quale non si può progettare il futuro”. Nonostante le premesse, “Come home to mama” suona leggero come una piuma.