di Sandro Calice
"Primo film italiano in concorso nella seconda giornata del Festival: "Alì ha gli occhi azzurri" di Claudio Giovannesi. In gara anche il film francese "Main dans la main" di Valérie Donzelli. Fuori concorso, "Mental" di PJ Hogan. "Carlo!" di Gianfranco Giagni e Fabio Ferzetti inaugura la selezione di Prospettive Italia, fuori concorso: sul red carpet anche Carlo Verdone. Paul Verhoeven incontra il pubblico e presenta "Steekspel" un “film partecipato” con gli utenti del web. Per Alice nella città il red carpet di "Il Piccolo Principe 3D" di Pierre-Alain Chartier, coproduzione internazionale targata Rai insieme a altre tv pubbliche.
Parli la forza dei film”, auspicano il presidente della Fondazione Cinema per Roma, Paolo Ferrari, e il direttore artistico del Festival del Film, Marco Muller. Ieri il russo fuori concorso “Aspettando il mare” di Bakthiar Kudhojnazarov è stato il primo film a “parlare”, inaugurando la settima edizione del Festival.
In programma anche il primo film in Concorso, “Aku No Kyôten / Lesson of the Evil” di Takashi Miike. La linea di programma CinemaXXI ha aperto il fuori concorso all’insegna dei registi portoghesi, con le prime mondiali di “Histórias de Guimarães”, programma di tre cortometraggi di João Botelho, Tiago Pereira e João Nicolau, e di “O Fantasma do Novais” di Margarida Gil. Ieri all'Auditorium prima mondiale del film corale “Centro Histórico”, dei registi Aki Kaurismäki, Pedro Costa, Victor Erice e Manoel de Oliveira.
V OŽIDANII MORJA / ASPETTANDO IL MARE
di Bakhtiar Khudojnazarov, Russia - Belgio - Francia - Kazakistan – Germania 2012, drammatico
con Egor Beroev, Anastasia Mikulchina, Detlev Buck, Dinmukhamet Akhimov.
Guardando “Aspettando il mare” a un certo punto la sensazione è di trovarsi tra Kusturica e Terry Gilliam, con un regista al timone però che di quegli esempi sembra non sapere che farsene. Il capitano Marat torna al suo villaggio dopo tanti anni. Se n’era andato quando una impressionante tempesta aveva spazzato via la sua nave con tutto l’equipaggio, compresa sua moglie, e lui era stato l’unico sopravvissuto. Ora nemmeno il mare c’è più nel villaggio, è scomparso con quei morti e con la speranza di chi è rimasto. Ma il capitano Marat sa cosa bisogna fare: trascinare il relitto della sua nave attraverso il deserto fino a quel mare che lui sa esserci ancora, lì dietro l’orizzonte, per riportarlo a casa, insieme ai morti. Solo il vecchio amico Balthasar e Tamara, la sorella minore di sua moglie, da sempre innamorata di lui, gli restano vicini: un uomo così determinato non può essere pazzo.
Khudojnazarov (“Pari e Patta”, “Luna Papa”) dice di aver preso l’ispirazione per questo racconto da quello che viene definito uno dei maggiori disastri ambientali del XX secolo: il prosciugamento del Lago d’Aral, un tempo un lago enorme al confine fra il Kazakistan e l’Uzbekistan e oggi, dopo decenni di prelievo d’acqua per l’irrigazione, quasi completamente prosciugato. Tanto che non è raro trovare carcasse di vecchie navi poggiate sul fondo asciutto, come quella che Marat conduce nel film. C’è quindi una denuncia ecologica dietro il lavoro del regista, che però sottolinea come l’ecologia che gli interessa di più sia quella dell’anima, come cioè le persone reagiscano al vuoto che gli è rimasto dentro, più grande perfino di quello lasciato dal mare che non c’è più, e come quindi, infine, possa essere potente e rigenerante la volontà dell’essere umano di non arrendersi alle tragedie. Un film pieno di metafore, spesso surreale, accompagnato da una sontuosa fotografia, il cui limite, però, è quello di avvitarsi su se stesso, di risultare più la somma di episodi che un racconto lineare, dove i personaggi ogni tanto restano fermi un giro rispetto agli eventi, in un carosello che alla lunga annoia e che nemmeno il liberatorio (e quasi scontato) finale riscatta.
AKU NO KYÔTEN / LESSON OF THE EVIL
di Takashi Miike, Giappone 2012, drammatico
con Hideaki Ito, Fumi Nikaido, Shota Sometani, Kento Hayashi, Kodai Asaka, Erina Mizuno.
Che i giapponesi siano a volte un po’ “eccessivi” è risaputo e per certi versi anche apprezzato, ma se l’eccesso diventa un minestrone sanguinolento che si auto compiace, non resta molto da apprezzare.
Il professor Hasumi insegna inglese agli adolescenti dell’Accademia Shinko. E’ bello, giovane, preparato, amato dagli studenti, sempre pronto a risolvere diverbi e trovare soluzioni a problemi. Perfetto, troppo. Hasumi ha un passato nero che sta per irrompere con feroce violenza anche nel suo presente. E nessuno si salverà.
Miike (“Gozu”, “Tredici assassini”, “Hara-Kiri - Death of A Samurai”) mette in scena il popolare romanzo “Lesson of the Evil” di Yusuke Kishi, che da noi avrà come titolo “Il canone del male”. La storia comincia (sono le primissime scene, non sveliamo nulla) con un ragazzino che uccide i genitori. Dal che noi siamo autorizzati a capire che quel futuro adulto sarà pericolosamente disturbato rispetto ai rapporti sociali. E’ Hasumi? Non lo diciamo, per quei due o tre che non dovessero arrivarci subito. Da quel punto in poi il pathos starebbe nel nostro sconcerto al cospetto della dicotomia dell’animo del protagonista, della schizofrenia che da un lato lo fa impegnare per ricostruire le fratture nelle relazioni, dall’altro gli fa distruggere fisicamente e senza il minimo sentimento qualunque legame affettivo. Sangue a ettolitri, sbudellamenti, sparatorie, miriadi di suggestioni buttate nel pentolone, dai manga all’attualità delle stragi nei licei, da John Woo a Cronenberg. Troppo di tutto, senza costrutto, con un finale da telefilm che lascia un sorriso nervoso.