di Maurizio Iorio AA.VV. – Music is love
(Route61/Hemifran)
E’ musica d’altri tempi? La musica di quarant’anni fa, è d’altri tempi? O meglio: non è al passo con i tempi (attuali)? Riascoltarla e rileggerla è solo nostalgia o è un’operazione didattica? Oppure, meglio, è solo un atto d’amore? Perché, come recita il titolo del doppio album dedicato ai quattro menestrelli californiani, Crosby, Stills, Nash & Young, “Music is love”. Sono ben 27 le canzoni reinterpretate da una manciata di artisti per lo più americani, ma anche inglesi, irlandesi, australiani. La domanda iniziale riguarda l’epoca (parliamo degli anni ’60) in cui c’era la beat generation e il movimento hippie, quello di “fate l’amore, non fate la guerra”, del festival di Woodstock, dell’acido, dei diritti civili. Fu la California la grande madre di quel movimento, e la colonna sonora la scrissero i Byrds, CSN & Y, i Jefferson Airplane, i Grateful Dead, Janis Joplin, and so on. Una piccola etichetta italiana, la Route61, ha lavorato due anni per assemblare questo doppio e lussuoso tributo, che raccoglie canzoni provenienti sia dal repertorio comune che da quello solista dei quattro (ormai) vecchi eroi, un caravanserraglio di brani che provengono da album storici come “4 way street”, “Deja vù”, “After the Gold Rush” , “Zuma”, “Manassas”, “Crosby Stills & Nash”, tutti risalenti ai primi anni ’70. Nell’elegante booklet ogni interprete spiega le motivazioni della sua scelta. Come la leggendaria Judy Collins, cui era dedicata la bellissima “Suite: Judy blue eyes”, che ha ripescato “Helplessy Hoping”, perché “contiene una parte della mia storia d’amore con Steve Stills”. Oppure la figlia di Stills, Jennifer, che riprende la pragmatica “Love the one you’re with” (“Se non puoi stare con la persona che ami, ama la persona con cui stai”). E poi, fra i tanti, il buon Elliott Murphy, con la younghiana “Birds”, l’irlandese Liam O’Maonlai, voce degli Houthouse Flowers, che si cimenta in “Lady of the island”, l’ex Dream Syndicate Steve Wynn che rilegge , stravolgendola, “Triad” (da “4 way street”), Willie Nile in “Rockin in the free world” (da “Reprise”, di Neil Young, 1989), o la nuova stella del folk americano, la texana Carrie Rodriguez, che riprende la fondamentale “Cortez the killer” (“Chi se non Neil Young poteva dipingere con immagini così vivide l’impero azteco durante la fine del regno di Montezuma in una canzone rock? La gente, i colori, le cerimonie… tutte queste cose descritte in pochi versi!). Un’intera epoca in 27 canzoni, un vangelo per gli ultracinquantenni, un manuale d’istruzioni per i ventenni. Scrive Dave Zimmer, biografo ufficiale del quartetto: “ Più di quarant’anni fa questi musicisti si guardavano dentro, poi tiravano fuori le loro sensazioni e scrivevano canzoni che hanno formato una generazione. Bè, quella generazione, ed insieme a lei anche i musicisti, sono cresciuti ma quel legame è rimasto solido nel tempo. Quando le nuove generazioni li hanno riscoperti, quella musica ha riacquistato freschezza e nuove motivazioni”. Paul Simon – Live in New York City
(Universalmusic)
Sei giugno 2011, Webster Hall di New York. Una delle tante tappe del tour mondiale di “So beautiful and so what”, dodicesimo album in studio da solista di Paul Simon. Stessa generazione dei quattro songwriters di cui sopra. Settantadue anni e l’entusiasmo di un ragazzino. Un newyorkese doc come lui non poteva che registrare nella sua città il suo terzo album dal vivo. Doppio, con incluso anche il dvd della serata, girato dal regista Martyn Atkins. Concerto strepitoso, per usare un eufemismo. Non poteva essere altrimenti: Paul Simon è già di suo un musicista di livello superiore, con un repertorio da storia della musica. AD aggiungere valore, la band che lo accompagna è superlativa, e si muove fra i generi con la precisione di un metronomo: il reggae, l’elettrico, il jazz, il folk, il pop (la sempre splendida “Sound of silence”, asciugata fino all’osso), il caraibico, il cajun. E che si trasforma con fare repentino da big band a combo acustico, con una ricchezza strumentale ed una sapienza tecnica che pochi al mondo possono vantare. Ovvio che il direttore d’orchestra ha i suoi meriti, perché ha scritto canzoni, alcune con quarant’anni sul groppone, ascoltate e riascoltate migliaia di volte, che sono cellule della nostra memoria. Ci sono tutte, o quasi, quelle che contano: Still Crazy, Boy in the bubble, Late in the evening, Slip slidin’ awat, The obvious child, Heart and bones, Kodachrome, The sound of silence. Mancano, a voler pignoleggiare, America, Bridge over trouble water, Msr. Robinson. Ma è un peccato veniale. Anche questo è un volume di storia della musica.