L’allungamento della vita media, unito al calo della natalità, è un fenomeno che sta modificando in profondità la composizione demografica dei Paesi in tutto il mondo. Ne abbiamo parlato con Gustavo De Santis, docente di demografia all’Università di Firenze e promotore del sito www.neodemos.it
Nei Paesi “poveri” l'invecchiamento della popolazione pone sfide sociali già da tempo affrontate in Occidente. Basteranno i ritmi attuali di sviluppo economico per gestirle efficacemente?
Ogni cambiamento è una sfida, e lo è tanto più strettamente quanto più la società crea servizi e funzioni che si legano all’età. In epoca moderna, tutti i paesi del mondo hanno fissato soglie di età rigide per fare certe cose (a 6 anni a scuola, a 18 anni il servizio militare, a 60 in pensione, ecc.) il che, in presenza di cambiamenti demografici, fa cambiare molto, e in tempi relativamente rapidi, la platea dei beneficiari dei servizi, e anche di coloro che forniscono la manodopera e le risorse necessarie per quel servizio. Se non ci si adatta rapidamente a una realtà dinamica (ad esempio, adeguando le età pensionabili), e si ritardano gli aggiustamenti, si creano scompensi, e si finisce poi col dover fare in fretta e male (con traumi, scontri sociali, e ingiustizie distributive) quelle riforme che non si sono fatte per tempo e con gradualità. Dirlo è facile; farlo, invece, come insegnano, ad esempio, le vicende previdenziali del nostro paese (e di tanti altri paesi “ricchi”) è invece molto più difficile.
E, certo, i paesi “poveri” rispetto a noi, si caratterizzeranno per cambiamenti demografici più rapidi (e quindi più traumatici) in contesti economico-organizzativi meno sviluppati - e quindi qualche motivo di preoccupazione c’è, non lo nego. Ma non bisogna neppure cascare nella tentazione opposta di fossilizzarsi sugli stereotipi, e proiettarli nel futuro. Le brillanti lezioni di Hans Rosling mostrano che, se si usa una scala temporale adeguatamente “velocizzata”, anche i paesi “poveri” conoscono il progresso, sia in termini demografici (sopravvivenza e fecondità, per esempio) sia in termini economici (crescita del pil pro-capite) - e il loro progresso è più veloce del nostro. Rosling contesta addirittura la dicotomia (e la stessa terminologia) paesi ricchi-paesi poveri, ed è difficile dargli torto alla luce delle cose che mostra.
Ma per tornare al punto: il ritmo di progresso attuale dei paesi “poveri” non garantisce che colmeranno tutti e per intero il gap che attualmente li separa dal mondo ricco, ma suggerisce fortemente che le immagini che abbiamo oggi davanti (di povertà e fame, ad esempio) saranno ragionevolmente non più valide in futuro.
Quale impatto avrà il rapido invecchiamento della popolazione cinese, legato a decenni di politica del figlio unico, sull'economia e la struttura sociale interna e di conseguenza sulla globalizzazione come oggi la conosciamo?
Questo impatto sarà molto forte e difficile da assorbire, proprio perché rapidissimo - e perché accompagnato da una forte distorsione nel rapporto dei sessi alla nascita, con netta preferenza per il figlio maschio (e scompensi poi, 20 o 30 anni dopo, sul mercato matrimoniale). La Cina è passata, in 80 anni, da 7 figli per donna a 1,5, mentre la mortalità è crollata. Si tratta, insomma, di una tipica “transizione demografica” da un regime demografico antico a un regime demografico moderno, o addirittura postmoderno, con fecondità insufficiente al rimpiazzo generazionale. Tipica, ma accelerata rispetto ai “normali” standard storici. Tutte le transizioni demografiche portano con loro una distorsione nella struttura per età, per cui, in termini relativi, aumentano prima i giovani, poi gli adulti e infine i vecchi. Alla fase 2, di aumento degli adulti si accompagna, tipicamente, anche a una forte crescita economica (favorita dal basso peso dei non produttivi: giovani e vecchi), mentre la terza fase, quella della crescita degli anziani, comporta di norma un rallentamento economico (e il caso dei paesi oggi sviluppati -ricchi, ma vecchi e in quasi stagnazione- non contraddice questo schema generale). Morale: mi aspetto che anche la Cina, come altri paesi prima di lei, soffrirà in futuro di un rallentamento della crescita economica, legato alla demografia (fine della crescita della popolazione e invecchiamento). Ma che questo si traduca in drammi sociali non è necessariamente vero, e non è neppure il risultato più probabile. L’esito più probabile è invece lo sviluppo di un sistema tale per cui gli anziani, una volta in carico alle famiglie, passino in parte e progressivamente in carico alla società nel suo complesso, tramite i sistemi previdenziali e sanitari (pubblici o privati, il che, ai fini di quel che si sta discutendo adesso, non cambia molto: in entrambi i casi, non sono i -pochi- figli adulti a prendersene carico, ma è la collettività). Ma avverrà anche, come sta avvenendo nel resto del mondo, che l’allungamento della durata media della vita si accompagni a migliori condizioni di salute, e che queste permettano sia di risparmiare sulle spese sanitarie, sia di tenere le persone al lavoro più a lungo di quanto considerato sin qui “normale”.
Per aiutare gli anziani di domani bisogna ovviamente investire sui giovani di oggi (salute, formazione, abilità professionali e sociali, cultura). Ritiene che questo stia accadendo, sia nelle società sviluppate sia in quelle emergenti?
Domanda difficile, con risposta molto diversa da paese a paese. Ma, in media, sì questo è proprio quello che sta avvenendo: Lo Human Development Index (http://hdr.undp.org/en/), ad esempio, pur se con metodologia in parte discutibile, mostra che in quasi tutti i paesi del mondo stanno aumentando istruzione, salute e reddito, e sono in tutti i casi indicatori che direttamente o indirettamente hanno a che fare con l’investimento sui giovani di oggi. Questo investimento, poi, è facilitato dalla bassa fecondità: con meno figli, le famiglie possono investire di più su ciascuno di essi (una relazione che, su scala più ridotta, è vera anche per le famiglie all’interno dei paesi sviluppati). Anche sotto questo profilo, quindi, le indicazioni sono mediamente buone: le cose evolvono e in direzione favorevole.
Comunque, il concetto di “aiutare gli anziani di domani” andrebbe forse ripensato: saranno sani, ben istruiti, ben assistiti dalla tecnologia, molto più di quanto lo siano mai stati i vecchi di qualunque epoca e qualunque paese nel passato. E saranno anche molto più ricchi: se a questo maggior benessere contribuiranno anche gli anziani stessi, andando in pensione più tardi (ma facendo lavori meno logoranti), questo sarà solo un bene.
(V. R.)