Siria, un conflitto oltre Damasco


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La polveriera del Medioriente

Un regolamento di conti tra i nemici di sempre s

di Nello Rega
(n.rega@rai.it)

Come vent’anni fa nei Balcani, i confini etnici si confondono con quelli religiosi e i politici con quelli economici. Il conflitto in atto in Siria più che una crisi interna è un vero e proprio regolamento di conti a livello internazionale. Da una parte Qatar, Arabia Saudita e Turchia, dall’altra l’Iran, in testa ad un gruppo di sostenitori del presidente Assad (Russia, Hezbollah, Cina). Dopo oltre un anno e mezzo di violenti combattimenti tra le forze fedeli al presidente e un fronte coalizzato di oppositori, mercenari, fanatici, la situazione in Siria è stagnante.

Ogni giorno da una parte e dall’altra rivendicazioni di conquiste di città e aree urbane, un bilancio di morti e feriti, accuse reciproche di violazione sistematica dei diritti fondamentali. E le organizzazioni internazionali? Per il segretario generale della Nato, Rasmussen, “serve una pressione più forte sul regime di Damasco per indurlo a fermare le violenze. Lo stallo che impedisce la Consiglio di sicurezza di approvare una risoluzione contro la Siria manda il messaggio sbagliato al presidente Assad”. Una sintesi coraggiosa che sembra, però, non tener conto di cosa significhi in termini realistici l’apertura di un fronte militare in un’area più simile ad una polveriera che a un insieme di Stati e popoli.

Al potere dal 2000, dopo la morte del padre Hafez (che ha governato il Paese per 3 decenni), il 46enne Assad in una “lucida” fotografia del Medioriente, lo scorso anno affermò senza mezzi termini: “Il mondo arabo è in preda ad una specie di malattia causata da decenni di stagnazione. E dove c’è stagnazione, ci sono inquinamento e microbi”. In un’intervista al Wall Street Journal, il raìs siriano parlò della politica Usa con due pesi e due misure: aiuti all’Egitto, ma embargo alla Siria. Quanto successo in Iraq e Afghanistan era stato velocemente dimenticato.

Intanto, con un bilancio di quasi 30 mila persone uccise in un anno e mezzo di violenze, la crisi siriana si è imbattuta in un ennesimo ostacolo di non poco conto. La Turchia, sul cui territorio sono caduti a più riprese colpi di mortaio, è pronta a intervenire per difendersi. E, essendo membro di peso della Nato, ha incassato solidarietà e promessa di aiuti dall’Alleanza atlantica. Il governo di Ankara si è spinto oltre, obbligando un aereo di linea siriano proveniente da Mosca ad atterrare sul suo suolo con un carico sospetto di armi russe. Immediata la protesta della Russia, da sempre alleata di Damasco e pronta all’ennesimo veto a qualunque decisione dell’Onu contro Assad. Un avvertimento a non esasperare i toni è arrivato anche dal premier iracheno al Maliki, secondo il quale “si rischia di creare un nuovo scenario libico”. Con questi elementi in campo la polveriera siriana è più che pronta a creare una “rivoluzione” in tutta l’area.

Un eventuale attacco contro Damasco da parte della comunità internazionale significherebbe trascinare nel conflitto l’Iran che vede nella Siria la linea di resistenza contro Stati Uniti e Israele. Se l’insurrezione dovesse spazzare via Assad, gli ayatollah perderebbero anche i “contatti” con gli sciiti libanesi di Hezbollah che attualmente sono un “cuscinetto” fedele e ben armato tra Israele e Teheran, passando per Damasco. A condire, come se ce ne fosse bisogno, la miscela esplosiva vi è anche il timore degli Stati Uniti che le armi chimiche siriane possano cadere in mani sbagliate. Da qui l’invio di una task force americana in Giordania per essere pronta a qualsiasi evenienza. La strada diplomatica, come sostiene la Lega araba per bocca del suo segretario Moussa, resta l’unica percorribile e, soprattutto, senza controindicazioni. Ma Damasco ha respinto l’ultima richiesta, in ordine di tempo, dell’Onu: cessate il fuoco unilaterale. L’appello di Ban Ki-moon, consapevole della difficoltà di attività del suo inviato Brahimi e del fallimento del predecessore Annan, conteneva una “ingenua” speranza di far breccia sul regime di Assad che conta centinaia di defezioni di fedelissimi. Il portavoce del ministero degli Esteri siriano, Makdissi, ha affermato che “per due volte il regime ha dichiarato una tregua, della quale i terroristi hanno approfittato per intensificare la loro azione”.

In un Paese a maggioranza sunnita, ma governato dalla minoranza alawita (che ha radici sciite) la crisi ha spazzato via anche quella minima ma efficace garanzia data fino ad oggi alle popolazioni cristiane. I bombardamenti su Aleppo e i furiosi combattimenti nelle aree “franche” ne sono testimonianza. In questo scenario una soluzione sarebbe più che possibile, ma a volte le cause dei conflitti superano sul campo gli effetti benefici di intese di pace. E sul Medioriente, per l’ennesima volta aleggiano il fantasma della pacifica convivenza e lo spettro della “tela di Penelope”.