La malattia dell’Alzheimer


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Carbone: 'Investire sulle terapie riabilitative'

Intervista al responsabile Centro Demenze Unità Alzheimer, Italian Hospital Group di Guidonia gabriele_carbone

di Fabrizio de Jorio
(fa.dejorio@rai.it)

Professor Carbone, quali sono le cause della Malattia di Alzheimer?
La causa della malattia di Alzheimer non è ancora chiaramente definita ma tutti speriamo che non sia molto lontano il giorno in cui potremo conoscerla anche considerando che, al riguardo, sono in corso in tutto il mondo oltre 40 studi clinici su oltre 10.000 pazienti.

L’ipotesi a oggi più accreditata è che la malattia di Alzheimer possa essere causata da un’alterata “frammentazione” di proteine delle cellule nervose. Queste proteine “alterate”, tenderebbero ad aggregarsi all’esterno dei neuroni formando le “placche amiloidee” che svolgerebbero un’azione tossica anche su una proteina intracellulare che, così modificata, provocherebbe la deformazione di elementi intracellulari portando alla formazione dei cosiddetti “grovigli neurofibrillari”. Queste alterazioni provocherebbero la morte dei neuroni inizialmente dell'ippocampo, area implicata nei processi cognitivi e nella memoria, fino a interessare progressivamente le altre aree cerebrali.

Si è anche visto che i neuroni persi durante il progredire della malattia sono in gran parte di tipo colinergico (utilizzano cioè acetilcolina come neurotrasmettitore) e quindi alla sua mancanza sono stati attribuiti i disturbi cognitivi che rappresentano, di norma, i primi sintomi con cui si manifesta questa patologia.

I farmaci sono tutti solo sintomatici?
Partendo da queste considerazioni i ricercatori hanno quindi sviluppato farmaci capaci di aumentare i livelli di acetilcolina o utili nel rallentare la morte cellulare e che sono ancora gli unici ad essere stati approvati per la cura della malattia di Alzheimer. E’ vero, sono farmaci sintomatici e che agiscono sui disturbi cognitivi e non sulle possibili cause della malattia e pertanto destinati a perdere efficacia nel tempo. La maggior parte degli studi in corso sono invece concentrati sulla ricerca di molecole che possano agire bloccando la produzione delle placche amiloidee e la formazione dei grovigli neurofibrillari per intervenire non più sui sintomi ma sulla possibile causa della malattia.

In attesa di nuovi farmaci cosa si può fare per aiutare questi malati e le loro famiglie?
 Sono sempre maggiori le evidenze dell’importanza di coinvolgere i malati in attività riabilitative per migliorare o rallentare i disturbi cognitivi e funzionali. La letteratura scientifica riporta inoltre l’utilità di peculiari modalità assistenziali (come il Gentle Care o il Dementia Care Mapping) e di interventi non farmacologici (musicoterapia, arteterapia, danza, ludoterapia, Pet e doll therapy, aromaterapia, Snoezelen, Validation therapy, ecc.) per il controllo dei disturbi psichici e del comportamento (BPSD) che si manifestano nel decorso della malattia. A tal proposito molte Linee Guida osservano che nessuna terapia farmacologica può prescindere da un preventivo intervento non farmacologico che corregga le cause psicologiche o sociali che possono sottendere i BPSD avendo ovviamente escluso altre possibili cause organiche.

A sostegno dell’utilità degli interventi riabilitativi sono anche le e più recenti evidenze della letteratura che dimostrano che il cervello ha la capacità, anche in età avanzata, di riadattare e riorganizzare la propria microstruttura (plasticità) ripristinando connessioni tra i neuroni e così recuperare in parte o totalmente funzioni perdute. L’esempio di più immediata comprensione della plasticità “plasticità” delle cellule nervose è il recupero delle funzioni motorie o del linguaggio che si può avere dopo un evento cerebrale acuto (ictus ischemico) che le aveva compromesse.

Quindi il malato non può guarire ma queste tecniche riabilitative aiutano a rallentare la progressione della malattia?
L’obiettivo degli interventi riabilitativi cognitivi e funzionali per un malato di Alzheimer se non può essere quello della “restitutio ad integrum”, per la natura degenerativa progressiva della malattia, è sicuramente di massimizzare la capacità di mantenere le autonomie funzionali del paziente nel proprio ambiente con i limiti imposti dalla patologia, dal danno funzionale e dalle risorse disponibili; e di aiutare la persona ad adattarsi al meglio per ogni differenza fra capacità raggiunta e desiderata. La stessa definizione dell’OMS stabilisce sostanzialmente che: “la riabilitazione implica riportare i pazienti al massimo livello raggiungibile di adattamento fisico, psicologico e sociale.” L’intervento riabilitativo deve pertanto comprendere tutte le misure che mirano a ridurre l’impatto della disabilità e dell’handicap e consentire al paziente demente di ottenere la massima autonomia funzionale, in modo particolare nel suo ambiente domestico. Aiutare il malato a restare nelle migliori condizioni per il maggior tempo possibile anche attraverso specifiche strategie e tecniche riabilitativo-assistenziali diventa un obiettivo di successo etico, economico e sociale in attesa che nuovi farmaci possano aggredire la causa che innesca la malattia di Alzheimer.

Ma le strutture sanitarie sono sufficientemente in grado di rispondere alle esigenze dei malati?
Allo stato, i servizi socio-sanitari esistenti non sempre sono in grado di rispondere ai bisogni riabilitativi dei malati e di affrontare le diverse necessità socio-assistenziali che si presentano, sempre diverse, nel lungo decorso della malattia.

I presidi ospedalieri e i Centri territoriali (le UVA) molto spesso si limitano a fare una diagnosi, a prescrivere una terapia farmacologica, per poi lasciare il paziente e la famiglia senza un progetto riabilitativo e socio-assistenziale. Diventa tuttavia sempre più urgente ed importante affrontare in modo organico il problema della gestione della demenza sia per l’aspetto terapeutico-riabilitativo che per l’aspetto socio–assistenziale: il primo basato sull’attuazione di un intervento multidimensionale (olistico) specifico per la fase di malattia e incentrato sulla gestione dei sintomi manifestati; il secondo, decisamente importante quanto il primo, basato sulla creazione di una su una rete di assistenza che dia dignità al paziente e sollievo alla famiglia.

Infatti, come emerge anche dai dati della letteratura scientifica più recente, l’intervento è più efficace se la terapia farmacologica è associata a interventi riabilitativi e socio-assistenziali complementari e sinergici per i vari aspetti della malattia (cognitivo, comportamentale, funzionale, affettivo e di sostegno al caregiver).

L’Italia, come ha sottolineato l’Oms, è uno dei tanti paesi nei quali non esiste Piano nazionale sulle malattie neurodegenerative. Cosa ne pensa?
Medici, ricercatori e tutto il personale socio-sanitario sono quotidianamente in trincea per sopperire alle carenze e alle enormi difficoltà del sistema sanitario anche in assenza di un quadro normativo nazionale, che auspichiamo sia varato al più presto. Tuttavia tra le regioni virtuose c’è il Lazio che con la legge Regionale n. 6, del 12 giugno 2012, disegna una rete che integra strettamente fra di loro l´aspetto di diagnosi e cura con quello dei servizi sociali, per garantire così una continuità assistenziale a lungo termine (“la presa in carico socio-sanitaria”), mirata al ´benessere´ del triangolo sociale costituito da malati, operatori e caregiver.

Tale continuità d’interventi potrà essere appunto garantita da una globalità e complessità di approccio, che solo una rete di servizi integrata così come disegnata nella Legge Regionale può offrire, con spazi, persone, luoghi di cura e attività specificamente dedicate per compensare i disturbi cognitivo-comportamentali che si manifestano durante il lungo decorso di malattia e per sostenere il familiare nel suo ruolo di caregiver.

Realizzare una rete socio-assistenziale, per una tipologia di malati così complessa, è sicuramente una sfida da raccogliere, che richiederà anche un considerevole sforzo di aggiornamento culturale e di servizio da parte di tutti gli operatori del settore e un altrettanto notevole impegno da parte delle famiglie e delle associazioni dei familiari che sono coinvolte, a pieno titolo, ad essere parte attiva della rete disegnata nella Legge Regionale che, ne sono convinto, sarà di sicuro aiuto per migliorare la qualità di vita dei malati e delle loro famiglie.