di Rodolfo Fellini
(r.fellini@rai.it)
A seconda di come le si vogliano interpretare, le elezioni politiche bielorusse sono la dimostrazione di come sia difficile la transizione nei Paesi non avvezzi alla democrazia, oppure l’ennesima farsa ordita da un regime di stampo sovietico. Ancora una volta, l’esito del voto appare scontato e assegnerà un’ennesima cambiale in bianco al presidente Aleksander Lukashenko, che da quasi 20 anni governa il Paese con il pugno di ferro. Gli uomini di Lukashenko, che oggi occupano 102 dei 110 scranni parlamentari, torneranno a vincere a mani basse anche per mancanza di alternative. Lunedì scorso, le due principali forze d’opposizione hanno infatti ritirato i loro candidati in segno di protesta contro il mancato rilascio dei detenuti politici, ma soprattutto contro un sistema che lascia ampi spazi per i brogli. Ad esempio: la giornata elettorale è fissata per domenica, ma già dal martedì precedente chiunque lo desideri può recarsi ai seggi ed esprimere la propria preferenza. Le urne rimangono così incustodite per cinque notti, con conseguenze facilmente immaginabili. Il resto, denuncia l’opposizione, lo hanno fatto i mezzi di comunicazione, saldamente in mani statali, e le forze di sicurezza. In piena campagna elettorale, diversi giornalisti bielorussi e stranieri che seguivano un volantinaggio per la libertà di stampa a Minsk, sono stati picchiati da sconosciuti e poi arrestati dalla polizia. L’estate scorsa, l’opposizione era riuscita a organizzare dalla Svezia un lancio di orsacchiotti di peluche contenenti messaggi contro il regime, provocando una crisi diplomatica tra Minsk, Stoccolma e Bruxelles.
Leader popolare, Costituzione “illegale”
Le elezioni politiche, oltre ad essere una formalità, non potrebbero mutare l’equilibrio dei poteri in una Repubblica fortemente presidenziale. La Costituzione del 1996 (all’epoca Lukashenko era già in sella), che assegna ampi poteri al capo dello Stato, fu definita “illegale" dal Consiglio d’Europa, poiché viola il principio della separazione dei poteri. Il presidente può peraltro ricandidarsi per un numero infinito di mandati quinquennali, come stabilito nel 2004 da un referendum approvato dal 90% dei votanti. Lukashenko resta comunque un personaggio molto popolare in patria, principalmente in virtù delle sue politiche economiche, che “antepongono gli interessi della comunità”: una forma di “mercato socialista” che si oppone al “capitalismo selvaggio”. Si tratta, in buona sostanza, delle stesse politiche che erano in vigore sotto lo statalismo sovietico, per il quale Lukashenko non ha mai nascosto la sua nostalgia.
Un ventennio di sanzioni
La Bielorussia è da quasi un ventennio oggetto di sanzioni da parte dell’Unione europea e degli Stati Uniti. Le ultime sono state adottate dopo la repressione seguita alle elezioni presidenziali del dicembre 2010. In quell’occasione, l’opposizione era riuscita per la prima volta a portare in piazza migliaia di persone, scatenando una violenta repressione sfociata nell’arresto di 600 persone. In manette finirono anche alcuni candidati alle presidenziali, rimasti poi in cella anche per un anno e mezzo. Sia le presidenziali del 2010, sia quelle del 2006 che le elezioni politiche del 2008 sono state definite “non democratiche” dagli osservatori internazionali dell’Osce. Oggi, la dirigenza bielorussa appare sempre più isolata. Il solo alleato sicuro è il vicino Putin, anche se gli ultimi anni dell’idillio tra Mosca e Minsk sono stati offuscati da una crisi ricorrente sulle forniture energetiche, simile a quella che oppose la Russia all’Ucraina. Tra tutti i leader occidentali, l’unico che si è recato in visita ufficiale a Minsk è stato Silvio Berlusconi, nel novembre 2009. Sinora, però, l’isolamento diplomatico non sembra aver sortito alcun effetto su quella che, a torto o a ragione, viene definita l’ultima dittatura del continente europeo.