Musica - i consigli della settimana


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Sliding doors

Si incrociano i destini e gli album di Bob Dylan e Mark Knopfler

di Maurizio Iorio
(maurizio.iorio@rai.it)

Se il vecchio guru della musica popolare americana, Mr. Bob Dylan, e l’ex-rocker scozzese Mark Knopler, meno vecchio ma neanche tanto, non si fossero incontrati più di trent’anni fa e non avessero incrociato le loro chitarre, forse oggi i loro destini non sarebbero stati gli stessi. Ma, non avendo la prova del contrario, non possiamo saperlo. E’ oggettivo, però, che la reciproca influenza non può che aver fatto del bene ad entrambi, vista la statura artistica superiore dei due. Dylan assistette ad un concerto dei Dire Straits a Los Angeles e ne rimase folgorato. Contattò Mark Knopfler, allora front-man della neonata band inglese, e il risultato fu la stesura a quattro mani di “Slow train coming”, il capolavoro del periodo mistico di Bob Dylan. Come “Infidels” (1983), altro capolavoro, del quale il chitarrista scozzese ha curato anche la produzione, ma che scalfì l’amicizia fra i due per divergenze produttive. Le loro strade si sono reincrociate più volte,nel corso degli anni, tanto che nel 2011, per celebrare i 50 anni di carriera di Dylan, i due sono andati in tour insieme. E, guarda caso, anche i loro nuovo album sono usciti in contemporanea.

Bob Dylan

Tempest (Sony)

Settantuno anni, ripiegato su se stesso per l’ artrosi, cappellaccio calato sulla fronte a nascondere gli occhi cerulei, voce da vecchio hobo ubriacone, probabilmente un impasto di asfalto e bourbon, che dà ancora più spessore alle nuove invettive apocalittiche, alla fine del mondo imminente, causata da un’umanità dissoluta, corrotta e decadente (“Early roman kings”). La fissa dell’apocalisse, mutuata dalla Bibbia, Mr. Zimmermann ce l’ha da sempre (“A hard rain’s gonna fall”, “Shelter from the storm”, tanto per gradire), e i tempi bui in cui viviamo non gliel’hanno certo fatta passare. Non a caso l’album è uscito l’11 settembre, in coincidenza con la ricorrenza della mini apocalisse d’inizio secolo. Difficile trovare un’ombra di felicità e di speranza nelle pieghe delle 10 canzoni dell’album che, anche nel titolo (“Tempest”), rimanda alla tempesta shakespeariana, al capitolo finale, all’addio alle scene, o alla prossima fine del mondo. Difficile dirlo. Neanche gli esegeti più esperti riescono ad interpretare correttamente le indecifrabili metafore dylaniane. Quello che è certo, è che Dylan parla come un vecchio profeta , come quegli sciamani pellerossa che prevedono le sciagure scrutando i corvi che girano in tondo e la cenere del fuoco. ”This is a hard country to stay alive in/blades are everywhere and they are breaking my skin” (“Questo è un paese difficile per tirare avanti, le lame sono ovunque e mi stanno tagliando la pelle”) canta Dylan in “Narrow way”, e la chilometrica title track (14 minuti) altro non è che una versione aggiornata di “Desolation row” , ispirata da una canzone della Carter Family e dalla tragedia del Titanic (viene citato anche Leonardo di Caprio). Un pugno di canzoni provocatorie, cupe, ciniche e visionarie come sempre. Il menestrello di Duluth non si smentisce, continua a lanciare anatemi come un neo-Savonarola, da eretico credente. Perché, precisa, “volevo anche qualcosa di religioso”. L’unica luce è quella di John Lennon, , cui è dedicata l’ultima canzone, “Roll on John , che è “bruciato così luminoso”. Quanto al sound, Dylan ripercorre senza esitazioni il campionario sonoro della musica popolare americana, blues, folk, country e rock, spalleggiato da una band di ottimi turnisti, fra i quali spiccano il semper fidelis Charlie Sexton alla chitarra, e l’ex Los Lobos David Hidalgo. Produzione impeccabile, suoni precisi e puliti. “Tempest” farà felici i dylaniani , questo è il miglior Dylan degli ultimi anni.

Mark Knopfler

Privateering (Mercury)

Ogni volta che Mark Knopfer dà alle stampe un nuovo album (“Privateering” è il settimo a suo nome), molti dei suoi fans sperano in un ritorno alle sonorità dei Dire Straits, che l’hanno reso famoso negli anni ’80, che ormai hanno più di trent’anni, ma che suonano ancora attualissime. Speranza delusa, anche questa volta, è tempo di mettersi l’anima in pace. “Privateering” (“corsaro”), venti canzoni su due cd, prosegue sulla falsariga dei lavori precedenti: folk e blues ottimamente miscelati, splendidamente arrangiati, con qualche intermezzo celtico, tanto per ricordare le origini. La Stratocaster di Knopfler, suo marchio di fabbrica, vola alto, sempre nel solco di quel grande maestro che è J.J. Cale, che a lui e a Clapton (Cocaine, After Midnight) ha insegnato il mestiere. Le 20 tracce inedite di “Privateering” profumano d’Irlanda, di whiskey, di Delta del Mississippi, di treni che sbuffano, di blues delicati che filano lisci come palle da biliardo, di nostalgia per la terra dei sogni giovanili, alla quale deve la sua musica, e verso la quale non si sente di lanciare anatemi, come il suo amico Dylan, al quale rende omaggio nella bella “Bluebird”. Knopfler è un vero nobile: appartiene all’aristocrazia del rock, non urla, non sfascia chitarre, non mette in scena teatrini isterici, l’unico sgarro alla sobrietà è stata la fascia tergisudore. Le ballate sono tutte delicate, sospese nel vuoto, per i meno allenati forse anche soporifere, hanno quell’andamento bluesy che le rende soffici come ovatta ma non per questo leggere: i testi sono poetici, ma toccano anche il sociale (“Radio City Serenade”, “Seattle”, “Miss Your Blues”. Ma raccontano anche di pirati che solcano i mari alla ricerca del tesoro (“Privateering”).