Professore, negli ultimi anni la ricerca ha segnato un notevole progresso nel campo delle malattie genetiche rare. A che punto siamo?
Gli ultimi 15 anni sono stati per molti aspetti rivoluzionari. Si è trattato soprattutto di una rivoluzione tecnologica, che ha permesso di acquisire una serie di conoscenze altamente innovative, che hanno ampliato le possibilità diagnostiche, accelerato i tempi delle diagnosi ed abbattuto i costi delle indagini, aprendo nuove prospettive per la presa in carico di queste malattie.
Tra queste rivoluzioni c’è anche lo studio e la mappatura del genoma umano.
Lo studio completo del genoma ha prodotto molto, ma comunque per il momento meno di quello che qualcuno ottimisticamente pensava di potere ottenere nell’arco di una decina di anni. Ad esempio, sono stati fatti migliaia di studi su oltre 250 malattie e caratteri complessi riuscendo per ora a capire mediamente solo il 12-15% della componente ereditaria di queste malattie. In effetti resta ancora molto lavoro da fare per completare questo tipo e di conoscenza.
A cosa è dovuta questo rallentamento della ricerca?
Non si tratta di un rallentamento, ma semplicemente della presa d’atto dei tempi necessari alla ricerca. Probabilmente tendiamo a semplificare troppo la complessità della biologia e della genetica, che vorremmo decodificare attraverso delle scorciatoie. Di fatto, per passare dal genotipo al fenotipo, dobbiamo comprendere una serie smisurata di tappe intermedie, molte delle quali per loro stessa natura sono dinamiche, cioè mutevoli nel tempo e nei diversi tessuti dell’organismo: ad esempio, la parte trascritta del genoma (trascrittoma), la parte che diventa proteina (proteoma), le reazioni biochimiche controllate da questo sistema (il metaboloma); dobbiamo fare i conti con la complessa regolazione dei geni (reguloma ed epigenoma); le mutazioni che intervengono a livello somatico (il mutoma); il metagenoma, forse una delle scoperte più rivoluzionarie degli ultimi anni, cioè il genoma delle numerosissime specie batteriche che colonizzano il nostro organismo, a partire dal microbiota intestinale. Basti pensare che ogni persona ha circa 23mila geni, ma il nostro organismo ne esprime probabilmente alcuni milioni, in pratica i genomi batterici che interagiscono con il nostro genoma e ne modulano la funzione. All’indomani del sequenziamento del genoma umano, mentre alcuni dichiaravano che ci trovavamo di fronte alla più grande scoperta dell’umanità, alcuni, senza negare la straordinaria rilevanza del risultato acquisito, affermavano prudentemente che nei successivi 20 anni questa scoperta avrebbe avuto solo un minimo impatto sulla qualità delle vita e sulla cura delle malattie, a causa della complessità della traslazione dei risultati nella pratica clinica.
Eppure anche gli Usa e altri paesi hanno investito ingenti risorse sul sequenziamento del genoma umano…
Sì, ma avere la sequenza in mano è solo una tappa iniziale e non è sufficiente a farci capire come funzionano i geni, come dialogano tra loro, quali sono le loro interazioni con l’ambiente. Occorrerà ancora qualche lustro prima che si riesca a scomporre e a decodificare questa complessità.
Professore, i malati di malattie genetiche rare e le loro famiglie spesso lamentano l’assenza di farmaci per curare le patologie delle quali sono affetti, patologie anche difficili e talvolta impossibili da diagnosticare. E’ vero che le industrie farmaceutiche non investono nella ricerca di quei farmaci cosiddetti “orfani” perché non creano profitto?
Sul problema delle malattie rare e dei farmaci orfani ci sono dei miti da sfatare. Il primo è che neanche tra 100 anni riusciremo a curare tutte le malattie rare, perché molte di esse, per la loro stessa natura, sono incurabili. Giorni fa mi ha chiamato un collega dagli Usa mi chiedeva consigli su come curare una malattia rara che aveva colpito un neonato, la pachigiria, cioè un’alterazione nella stratificazione delle cellule della corteccia cerebrale che si estrinseca con una modificazione anatomica delle circonvoluzioni con gravi alterazioni funzionali. Purtroppo, in questo, come in altri casi, non ci sono trattamenti in grado di modificare la lesione, ma solo terapie sintomatiche che peraltro possono contrastare solo parzialmente i sintomi neurologici associati alla malattia. Sul problema del mancato investimento delle industrie farmaceutiche, voglio segnalare che in Italia operano oltre una trentina di piccole e medie case farmaceutiche che stanno sperimentando più di una sessantina di molecole. Quindi è un luogo comune negare il loro impegno: certo il mercato dei farmaci orfani è piccolo, ma non è vero che non ci sia, anche del nostro paese, una attività importante orientata alla ricerca e alla sperimentazione di nuovi farmaci. Vorrei però aggiungere e sottolineare che il problema delle malattie rare non si risolve solo con i farmaci. Tra le poche dozzine di molecole oggi in commercio vendute come farmaci orfani, oltre il 60% di esse è destinato alla cura dei tumori. Per tutto il resto delle malattie rare oggi note, circa 8000, non abbiamo farmaci dedicati. Ciò non di meno, la presa in carico delle malattie rare non si basa se non in piccola parte sui farmaci, ma soprattutto sui trapianti, sulle terapie cellulari, sugli interventi chirurgici, sulla neuro riabilitazione, la psicomotricità, la robotica, l’impiego di protesi. C’è un lavoro immenso, del quale si parla pochissimo, e che si traduce in protocolli in grado di gestire utilmente almeno due terzi dei malati rari.
Il recente caso della bimba Celeste, affetta da atrofia muscolare spinale ha scosso l’opinione pubblica. Stava effettuando una cura con le cellule staminali che il giudice in un primo momento aveva sospeso in attesa di chiarimenti sulla reale efficacia della terapia. Cosa ne pensa?
La bimba è affetta da una patologia che colpisce una persona ogni 8/10mila. Associandomi anche a ciò che ha detto e scritto il prof. Silvio Garattini, ritengo che non sia competenza della magistratura assumere decisioni di stretta pertinenza medica. Decisioni che competono ad uno stretto pool di medici e specialisti e non ai magistrati, allo stesso modo con il quale noi medici non entriamo nei tribunali a giudicare. Ci sono delle regole che riguardano le sperimentazioni di farmaci e terapie, alle quali ci si deve attenere. Altrimenti ricreiamo dei nuovi casi Di Bella, dove sotto pressioni emotive non scientificamente supportate qualche magistrato decide che i medici devono somministrare ai pazienti il protocollo Di Bella. Specifiche norme definiscono le modalità con le quali una nuova terapia debba essere sperimentata, prima di essere somministrata ad un paziente. Queste norme non sono state create per mettere un bavaglio alla ricerca, né per rallentare le applicazioni cliniche, né tanto meno per danneggiare i pazienti. Si tratta di protocolli irrinunciabili creati proprio a tutela dei pazienti e che mirano a dimostrare scientificamente l’efficacia delle nuove terapie e la loro innocuità (primum non nocere). Nel caso specifico della bambina Celeste, il presunto beneficio ottenuto dalla cura, non appare scientificamente provato e non è certo che il presunto miglioramento riportato dopo i primi trattamenti sia espressione della terapia effettuata (per di più in una struttura pubblica che ha avviato una terapia disattendendo le regole alle quali questi tipi di sperimentazione si dovrebbero attenere).
Altro caso di attualità, la bocciatura da parte della Commissione europea dei diritti dell’Uomo della legge 40/2004 http://www.camera.it/parlam/leggi/04040l.htm nella parte in cui non consente alla coppia di effettuare la diagnosi pre-impianto.
Anche qui c’è una discreta confusione: la legge 40 è una legge fatta per le coppie sterili e che ha emanato norme che taluni considerano troppo rigide e che forse in parte potevano essere migliorate, ma che comunque è stato il miglior compromesso che si poteva pretendere di raggiungere nel momento in cui è stata votata a maggioranza. La filosofia che sta dietro la legge è chiara ed è bene sintetizzata nell’articolo 1 nel quale si sottolinea (forse un po’ utopisticamente) di volere intervenire a tutela della madre (e in generale delle coppie sterili) e del concepito. Viceversa, la sentenza di Strasburgo riguarda una coppia fertile che decide di voler fare una diagnosi pre-impianto, che non è regolamentata per le coppie fertili, che comunque richiedendo un intervento che prevede il concepimento in vitro e di fatto ricadono nella legge 40.
Professore, in quest’ottica cosa proporrebbe per migliorare la legge, tantopiù che sulla scia della decisione di Strasburgo, anche il Parlamento dovrà modificare la legge 40/2004.
In Italia sarebbe utile tracciare due percorsi: uno per le coppie sterili ed un altro per le coppie che non sono sterili, ma vorrebbero attraverso il concepimento in vitro diventare genitori. A tale proposito ritengo che sarebbe doveroso, oltre che utile, investire nell’informazione e nella comunicazione, perché, se una coppia fertile, affetta da fibrosi cistica decide, anziché sottoporsi ad una diagnosi prenatale standard, ad esempio sui villi coriali, di seguire un altro percorso come il concepimento in vitro, qualcuno deve averli consigliati. Da medico, al di là delle implicazioni etico-filosofiche, io ad una mia figlia non consiglierei di fare la diagnosi preimpianto. Le suggerirei di fare l’analisi villi coriali. Da dove nasce la mia posizione? Se devo abortire, sempre di aborto di tratta, sia che l’embrione conta poche cellule, sia che sia lungo di qualche centimetro. Qualcuno però ha deciso di associare il concetto di aborto solo per quelli che avvengono nelle fasi tardive del primo trimestre e nel secondo trimestre.
Si professore, ma l’analisi villico coriale, si effettua entro l’11 settimana dal concepimento mentre la diagnosi preimpianto si fa sull’embrione. Sono due approcci diversi.
Ma il problema dell’interruzione della gravidanza esiste comunque e, ribadisco, sempre di aborto stiamo parlando. Ci sono evidenze di tipo anatomico, biochimico, biologico, genetico che dimostrano che a partire dalla prima cellula dello zigote inizia un programma unico, che è vita umana. Non c’è dubbio che anatomicamente nei primi giorni siamo ancora nella fase di proliferazione e non è ancora iniziata la differenziazione, ma dal punto di vista pratico si tratta di un programma biologico irripetibile, attraverso il quale sono passati tutti quelli che sono diventati neonati e poi adulti. Da genetista non consiglio la diagnosi preimpianto (anche se prendo atto che la sua domanda è in aumento in Europa e in altre parti del mondo), in quanto una coppia fertile, per effettuare una diagnosi preimpianto deva prima programmare un concepimento in vitro, che si realizza attraverso il bombardamento ormonale della mamma (una pratica che per la futura mamma non è una “passeggiata” e può comportare alcuni disagi ben noti). In secondo luogo, in base ai dati raccolti in Europa dalle Società Scientifiche, solo il 2,6% degli embrioni bioptizzati per il preimpianto diventano neonati (un tipo di “successo” che sarebbe bene spiegare alle donne candidate a questa tecnica). In terzo luogo, l’accuratezza diagnostica della tecnica è bassa con errori dell’1-5% per le diagnosi delle malattie mendeliane e oltre il 30% per le diagnosi citogenetiche (il che raccomanda a chi esegue la diagnosi reimpianto di verificare poi l’accuratezza dei risultati sui villi coriali). In quarto luogo, la gravidanza in vitro è maggiormente problematica dal punto di vista ostetrico, rispetto a quella avviata attraverso il concepimento naturale (ad es. i bambini concepiti nati in vitro hanno una frequenza di prematurità e di difetti congeniti maggiore rispetto ai concepiti per via naturale). Ritengo che se tutte queste informazioni fossero correttamente comunicate, molte donne potenzialmente candidate rinuncerebbero a sottoporsi a questo tipo di diagnosi precocissima.
Torniamo alle malattie rare. La ricerca, almeno in Italia, è sempre considerata all’ultimo posto e le risorse scarseggiano.
Purtroppo è vero, esiste una drammatica carenza di risorse, ma nonostante questo l’ingegno italiano eccelle nella ricerca delle malattie rare. I nostri ricercatori anche all’estero sono molto apprezzati, abbiamo “una marcia in più” e quindi i risultati, a dispetto delle risorse, pongono l’Italia ai vertici internazionali. Aggiungo però, che se ci impressiona la mancanza di risorse per la ricerca, ancora di più ci preoccupa la mancanza di risorse per l’assistenza di molte malattie rare che ancora sono fuori dagli elenchi compilati dieci anni fa.
Si spieghi meglio professore.
Mi riferisco all’annunciato decreto del ministro della Salute. Il professor Balduzzi si è impegnato moltissimo a mettere in moto questo elenco aggiuntivo delle malattie rare o gruppi di malattie rare, che attualmente sono al di fuori dall’elenco e dall’assistenza gratuita. Il decreto varato in questi giorni recepisce queste patologie ma già si sollevano dei “rumor” sulla mancanza di risorse per attuare questo disegno che è in primo luogo un progetto all’insegna della civiltà, che mira a non discriminare più i molti pazienti affetti da malattie rare non inclusi nell’elenco originale varato oltre 10 anni fa.
Il futuro della ricerca e le speranze per i malati.
Sono ottimista. Due terzi di queste malattie consente al paziente di vivere e la qualità della vita è significativamente migliorata. Basti pensare che fino agli anni ’70 la previsione di vita per i talassemici era bassissima, mentre oggi conducono una vita quasi normale e possono addirittura guarire con il trapianto di midollo; anche i malati di fibrosi cistica possono vivere oltre i 40 anni e pur non essendo ancora disponibile una terapia risolutiva, i farmaci attuali hanno migliorato la capacità di debellare la loro principale causa di morte, le infezioni. Effettivamente si sta lavorando molto per migliorare le capacità di cura di queste malattie. In alcuni casi, in particolare per le malattie metaboliche a difetto noto, è stato possibile in diversi casi sintetizzare in laboratorio l’enzima carente, che viene somministrato per tutta la vita per sopperire alla disfunzione genica che non consente al paziente di produrre quell’enzima. E’ chiaro che per molte malattie rare il trattamento resterà solo sintomatico, ma già oggi disponiamo di circa 400 farmaci “tradizionali” che vengono comunque utilizzati a beneficio dei pazienti rari. La ricerca negli anni a venire sicuramente migliorerà ancora la qualità della vita almeno i due terzi dei pazienti affetti da queste malattie, mentre per il restante non è realistico pensare di ottenere una cura, in quanto si tratta di malattie letali, ad es. patologie con grosse degenerazioni a livello cerebrale. La terapia cellulare per settori specifici, soprattutto per lesioni di nicchia, lesioni di piccola entità, si affermerà probabilmente come una cura elettiva e risolutiva. Noi ricercatori siamo ottimisti.
L’analisi genomica come test diagnostico per la prevenzione dalle malattie genetiche è efficace?
Allo stato attuale l’analisi genomica serve ancora a ben poco e in molti casi a nulla. A fronte degli oltre 1500 studi effettuati sui caratteri complessi, come il diabete, l’ipertensione, l’asma e altre malattie croniche, conosciamo ancora molto poco della loro ereditabilità. Della statura, che è un carattere complesso, conosciamo oggi oltre 200 marcatori genetici correlati con tale fenotipo, ma tutto quello che sappiamo spiega solo il 10% della componente genetica della statura. Ci sono tuttavia forti interessi commerciali che esercitano pressioni perché si utilizzino i dati già acquisiti per le malattie complesse, con l’obiettivo di sviluppare la medicina personalizzata. Al momento questi test, fatte salve pochissime eccezioni, non hanno nessuna utilità nella pratica clinica, anche perché il loro impiego dovrebbe essere preceduto da studi capillari necessari a definire la frequenza delle singole variazioni utilizzate per personalizzare la medicina nelle singole popolazioni, che possono presentare differenze etniche anche nell’ordine del 25-30%. L’agenzia statunitense Government Accountability Office (GAO) ha verificato i risultati delle analisi effettuate da 4 dei più grandi laboratori Usa che vendono test di medicina personalizzata. Per questo, è stato prelevato il sangue a 5 pazienti, i campioni anonimizzati sono stati suddivisi in tre aliquote in modo da ottenere 15 campioni. E’ stata testata su questi campioni una batteria di test predittivi. I laboratori hanno prodotto risultati discordanti, hanno fornito predizioni sbagliate (di fatto qualcuno era già ammalato di una malattia per la quale il test genetico ha invece fornito un bassissimo rischio di ammalarsi di quella patologia) ed hanno dimostrato l’incapacità di questi centri di fornire consulenze genetiche mirate, senza tenere conto che non disponevano di dati di riferimento per le diverse etnie alle quali appartenevano i soggetti testati. In pratica, questi test probabilistici al momento non sono attendibili e sono solo utili a fare cassa da parte di strutture commerciali poco scrupolose. D’altra parte, niente di nuovo sotto il sole. Si ripete la storia della conservazione in banche private del cordone ombelicale per un potenziale uso personale.
Eppure professore, sono molto pubblicizzati questi servizi offerti dalle banche del cordone ombelicale
Alcune autorevoli società scientifiche internazionali sono concordi nell’affermare che le probabilità di usare il campione di cordone ombelicale ad uso personale nel corso della vita è inferiore a 1 su 20mila. Ma quale è la probabilità che, una volta messo il sangue nella banca, tra 20 anni quando lo si vorrebbe recuperare sia utile a fornire cellule staminali?
La probabilità è relativamente bassa, tenuto presente che oltre due terzi dei campioni sono inadeguati e comunque non idonei a fornire cellule utili per una eventuale terapia. Ovviamente diversa e la posizione nei confronti della donazione altruistica del cordone e della sua conservazione presso banche pubbliche, che deve essere promossa e incentivata. (fdj)