di Rita Piccolini
Giovani, disoccupazione, precariato, rabbia, esclusione. E ancora, crescita della pressione fiscale, riforma delle pensioni, il paradosso degli esodati. Provvedimenti, alcuni dei quali molto impopolari, presi da un governo tecnico nel tentativo di mettere il Paese al riparo dai diktat di una “sovranità” esterna, lontana, minacciosa, quella della finanza internazionale e delle sovrastrutture europee. Si percepisce con chiarezza la “perdita della sovranità”. Cresce il malumore, gli studi sociologici e le statistiche lo confermano. Il disagio sociale avanza ma non si intravede ancora una via d’uscita.
Il professor De Rita, al terzo appuntamento di “Un mese di sociale” dal titolo eloquente:” L’antagonismo errante”, non è affatto ottimista nel commentare la relazione del responsabile del settore Territorio e reti Censis, Marco Baldi. L’antagonismo errante, spiega, nasce dal malcontento diffuso sul territorio. I cittadini, sia nelle grandi città che nei piccoli comuni, sono disorientati. Percepiscono il pericolo della crisi economica e subiscono i provvedimenti del governo, ma nel contempo si sentono in preda alle decisioni di “poteri forti” la cui identità è sempre più sfuggente e imprevedibile. Allora nascono forme di protesta diffusa, “errante” perché di volta in volta i motivi che la scatenano sono legati a situazioni contingenti, territoriali, (i No- Tav ne sono un esempio lampante, così come i comitati anti-rifiuti di Riano piuttosto che di Corcolle nel Lazio), e tutto questo in assenza della Politica con la P maiuscola, quella che per cinquanta anni, dal dopoguerra agli anni Novanta, è stata sempre e comunque un punto di riferimento, perché fonte di decisioni condivise dall’elettorato che si sentiva comunque rappresentato dai grandi partiti.
Ora, dice De Rita, i partiti parlano di primarie, di riforma elettorale, cercano risposte e persone autorevoli nella società civile, ma così facendo danno la sensazione “di curare un malato grave con l’aspirina” e di non prendere le decisioni che stanno più a cuore agli italiani. Quelle della vita reale da gettare oltre lo spread, quelle pratiche dei conti familiari che devono tornare, delle fabbriche che devono funzionare, dei giovani che devono lavorare, dei meno giovani anch’essi da recuperare al lavoro e non da accantonare poco più che cinquantenni a causa della crisi economica. I singoli sono soli, non trovano chi dia loro riposte adeguate, e allora protestano. Sembrano voler dire:siamo sudditi, allora facciamoci sentire, alziamo la voce contro leggi imperiali distanti e per questo percepite come disumane.
I due grandi motori del dopoguerra si sono inceppati, spiega De Rita: il primo è appunto quello della Politica, il secondo è quello della inclusione sociale che non è più inclusione decisionale. I due aspetti sono strettamente correlati perché la prima faceva sì che le decisioni, anche le più impopolari, fossero condivise e quindi socialmente accettate. Allora ecco arrivare l’antipolitica, prolificano le liste civiche, il mugugno di una volta diventa una forma di antagonismo fluttuante che non si sa bene dove sfocerà. E la disaffezione alla politica e gli atteggiamenti “anti-casta” si affermano soprattutto nelle regioni una volta più politicizzate: l’Emilia Romagna in testa, ma anche in Toscana, Umbria e in tutte le regioni del Nord. Il Movimento 5 Stelle si afferma sempre di più, i dati sull’astensionismo, sempre più alto, mettono in evidenza che anch’esso è una forma di protesta e non di qualunquismo e di disinteresse. Cambiano i motivi della contestazione. Se prima l’emergenza che allarmava di più i cittadini era quella della sicurezza in generale, ora invece l’80,2 % di chi protesta lo fa soprattutto contro i privilegi della classe politica e dei rappresentanti istituzionali. Poi c’è la protesta contro l’inasprimento del prelievo fiscale (Imu, accise sulla benzina ecc.) e quella contro le compromissioni ambientali, e questo perché ognuno vuole recuperare “sovranità” almeno a casa propria. La protesta contro l’immigrazione clandestina o i campi Rom che tanto destava allarme negli anni scorsi è scesa al 38%.
Ma vediamo chi sono e quanti sono quelli che protestano. Ben 9 milioni di italiani hanno partecipato nell’ultimo anno a manifestazioni autorizzate. Ce ne sono da aggiungere un milione e mezzo circa, il 3%, che ha partecipato a blocchi stradali e a iniziative ritenute illegali o di “disobbedienza civile”. Questo 17,7% di contestatori comprende solo i maggiorenni, quindi va aggiunta una quota di giovanissimi, studenti delle medie superiori, che non entrano nella statistica. E ancora il 16,9% ha aderito a uno sciopero, il 15,9% ha firmato una petizione, il 4,5% ha inviato una lettera di lamentela a un quotidiano. Sulle forme e i luoghi delle contestazioni alcuni dati sono inoltre significativi. Per l’85,5% la propria coscienza deve essere l’arbitro unico dei propri comportamenti; il 70,3% ha la convinzione che se non ci si fa rispettare non si otterrà mai rispetto; per il 48,6% a volte è giusto difendersi da soli anche con le cattive maniere.
Poi c’è tutto il capitolo del disagio giovanile, determinato dalla disoccupazione che continua a crescere e dalla conseguente permanenza forzata in famiglia. I giovani ovviamente sono i più inclini alla protesta, il 26,2% ha partecipato ad almeno una manifestazione negli ultimi 12 mesi, ma c’è anche un sorprendente 14,7% di ultrasessantacinquenni che è sceso in piazza nell’ultimo anno. Il grosso dei manifestanti ha tra i 45 e i 64 anni. Cresce il numero dei laureati tra coloro che protestano, ma anche il numero con livelli di scolarizzazione molto bassa, i ceti cioè tradizionalmente poco inclini a mostrare apertamente il proprio malumore e dissenso.
Una situazione sociale più che mai fluida e difficile da definire . Il direttore generale del Censis, Giuseppe Roma, osserva che se in Italia si volesse dedicare una copertina di un periodico, così come ha fatto “Time” individuando come persona dell’anno una giovane manifestante del movimento “Occupy Wall Street”, ci sarebbe difficoltà a individuare il personaggio “simbolo”, ci sarebbero più soggetti da utilizzare: da un giovane senza lavoro a un esodato, al pensionato intento ad occupare il cantiere di una discarica di rifiuti.
Ha ragione il professor De Rita, nella nostra società c’è allarme. Il dissenso, anche se non ideologico e non indirizzato è comunque molto alto. Se la Politica non rinasce la dictomia tra gli “antagonisti erranti” e i poteri sovranazionali diventerà più profonda. ”Non c’è il tradizionale ottimismo del Censis in questo rapporto” conclude De Rita, ma la fotografia di un paese che “si incarta” lasciandoci prigionieri di ciò che ci preoccupa.