I film del week end


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C’ERA UNA VOLTA IN ANATOLIA

di Sandro Calice

di Nuri Bilge Ceylan. Turchia, Bosnia-Herzegovina 2011, drammatico (Parthenos)
con Muhammet Uzuner, Yilmaz Erdogan, Taner Birsel, Ahmet Mumtaz Taylan, Firat Tanis, Ercan Kesel, Erol Eraslan, Ugur Arslanoglu, Murat Kilic, Safak Karali.

“Mi piace molto creare anche delle false piste”, dice Nuri Bilge Ceylan quando gli chiedono se il titolo del suo film non potrebbe generare il malinteso di un riferimento al cinema di Sergio Leone. E però qualche debito col maestro italiano il regista turco ce l’ha.

Notte fonda nelle steppe dell’Anatolia. Un convoglio di macchine si muove sulle strade sterrate, a bordo un assassino reo confesso, il suo complice, il capo della polizia locale, il procuratore, il medico legale, un ufficiale dell’esercito e diversi aiutanti. Cercano un corpo, che l’assassino cerca di ricordare dove ha seppellito. Ma al buio è difficile, la ricerca si prolunga, gli uomini parlano, si svelano, le verità che vengono alla luce non sono solo quelle che cercavano.

“C’era una volta in Anatolia”, Grand Prix della Giuria a Cannes, è indubbiamente un’opera d’arte. Nuri Bilge Ceylan (“Uzak”, “Le tre scimmie”) al costo di un cortometraggio e impiegando come sempre – anche se meno delle altre volte – attori sconosciuti, non professionisti e familiari, per due ore e mezza ci tiene immersi in un racconto apparentemente banale e lineare (non c’è nulla da scoprire, solo il corpo da trovare), in realtà denso di suggestioni, di fascinazioni, di rivelazioni. E tutto si tiene, senza sbavature: la sceneggiatura scolpita; la splendida fotografia di Gokhan Tiryaki che quasi trasforma il colore in un evocativo bianco e nero; gli attori, su tutti Uzuner (il medico che si difende dalla vita), Erdogan (il commissario che fa benissimo un lavoro che non sopporta) e Birsel (il procuratore capace di indagare su tutto tranne che su se stesso), con insistiti primi e primissimi piani (alla Leone?) che consentono loro di raccontare più di quanto dicano le parole. Ci si potrebbe avventurare nell’individuare le ispirazioni letterarie che il regista stesso ammette, Cechov e Dostoevskij innanzitutto, ma avrebbe poco senso. Conta il fatto che Ceylan, “semplicemente” con immagini e parole, tutte misurate, pensate, amate, riesce a farci viaggiare con i protagonisti, intrappolati tra lo spazio angusto delle vecchie macchine e quello smisurato e quasi magico della steppa, verso un luogo dove non è più importante il corpo da ritrovare, ma le anime che si sveleranno.