Ballottaggio delle presidenziali in Egitto


Stampa

Sospesi tra vecchio regime e (nuovo) Islam

La drammatica sfida tra Ahmed Shafiq e Mohamed Morsi

di Valerio Ruggiero

L’Egitto è a un bivio. E la strada che prenderà al ballottaggio delle presidenziali, sabato 16 e domenica 17 giugno, rischia di cancellare 16 mesi di sviluppi politici avviati dalla Rivoluzione che l’11 febbraio dello scorso anno ha travolto il regime trentennale di Hosni Mubarak.

A scatenare le tensioni, alla vigilia del voto che avrebbe dovuto completare la transizione democratica restituendo il potere ai civili, è stata la pronuncia della Corte suprema, che ha dichiarato incostituzionale la legge elettorale usata per le politiche dell’inverno scorso. Di conseguenza, il Parlamento, dominato dalle forze islamiche, è stato sciolto, le elezioni sono da rifare e il potere legislativo è tornato nelle mani del Consiglio supremo delle Forze armate, garante della transizione. Immediata la reazione della Fratellanza musulmana e dei Salafiti (insieme avevano il 70% dei seggi): i giudici nominati da Mubarak hanno attuato un “golpe”, nuove rivolte sono dietro l’angolo, “giorni difficili” attendono l’Egitto.

Mentre a Piazza Tahrir, simbolo della rivolta, riesplode la protesta, i sostenitori di Ahmed Shafiq, l’ultimo premier dell’era Mubarak, festeggiano: la Corte ha dichiarato incostituzionale anche la legge parlamentare che vietava agli esponenti del vecchio regime di candidarsi alle elezioni. Se applicata, la norma avrebbe messo fine alle ambizioni presidenziali di Shafiq. Il processo elettorale prosegue comunque come previsto: riunito d’emergenza, il Consiglio supremo delle Forze armate ha confermato il ballottaggio.

L’imbuto del primo turno ha lasciato in pista due soli sfidanti: Shafiq e Mohamed Morsi, candidato della Fratellanza musulmana, il movimento islamico moderato che con il suo partito Libertà e Giustizia aveva conquistato quasi la metà dei seggi in Parlamento, davanti ai radicali Salafiti del partito Al Nour (24% dei deputati).

Il candidato islamico ha dato prova di moderatismo accettando la pronuncia della Corte suprema in nome della separazione e dell’indipendenza dei poteri dello Stato. Poi però ha avvertito: se al voto si verificheranno brogli, “ci sarà una grande rivoluzione contro i criminali” finché “non saranno raggiunti gli obiettivi della Rivoluzione del 25 gennaio”. E ha evocato un “complotto” contro il popolo egiziano.

Morsi ha vinto il primo turno di maggio, ma con il 26% soltanto dei voti. Ingegnere figlio di contadini, 61 anni, è diventato il candidato ufficiale della Fratellanza musulmana dopo che la prima scelta del movimento, Shater, è stato escluso dalla corsa. Figura importante dell’opposizione al regime (nel 2006 fu incarcerato per aver protestato contro i brogli alle presidenziali dell’anno prima), si propone come l’uomo del cambiamento, ma ha radicalizzato i toni della sua campagna elettorale per guadagnare il consenso degli elettori islamici integralisti vicini ai Salafiti. La sua retorica ha però allontanato i liberali e soprattutto i cristiani copti (10% degli 82 milioni di egiziani) che temono, nel caso venisse eletto, discriminazioni, compressione delle libertà individuali e una invasiva applicazione della Sharia, la legge islamica.

Diametralmente opposta è la figura di Shafiq (24% al primo turno), navigato esponente del vecchio regime, fedele a Mubarak fino all’ultimo, al punto da essere da lui nominato premier a rivolta già cominciata (sarà costretto a dimettersi un mese dopo). Prima escluso e poi riammesso dalla Commissione elettorale alla gara per la presidenza, ha alle spalle una lunga carriera militare che lo ha portato al comando dell’Aeronautica egiziana; è poi stato per un decennio ministro dell’Aviazione civile. Si propone come l’alfiere della stabilità, calamitando i voti dell’establishment militare, del mondo degli affari e della minoranza cristiana. E’ inviso a islamici e rivoluzionari; ma a lui guardano quanti rimpiangono la stabilità del passato, hanno visto peggiorare le proprie condizioni di vita a causa della grave crisi economica che sta accompagnando la transizione politica, e temono l’elezione di un presidente islamico.

A suo favore potrebbero inoltre pesare non solo il conservatorismo diffuso nei villaggi rurali ma, temono molti osservatori, anche la “lunga mano” dei vertici militari sul responso delle urne: i generali sono ritenuti poco disponibili ad accettare un futuro presidente che, come Morsi, ha guidato le recenti proteste contro la sentenza che ha condannato Mubarak all’ergastolo, in particolare contro l’assoluzione di sei alti funzionari del ministero dell’Interno accusati di essere direttamente responsabili della sanguinosa repressione della rivolta.

La scelta che gli elettori egiziani hanno davanti è dunque, inevitabilmente, tra due opposti: un ritorno all’antico, sia pure riverniciato con una patina di democrazia, e un futuro politico condizionato dall’islamismo, moderato o radicale che sia. E gli ideali della rivoluzione democratica? Apparentemente traditi, come le speranze delle centinaia di migliaia di persone che per settimane hanno gremito Piazza Tahrir al Cairo, pagando il pesante tributo del sangue di oltre 800 morti.

La decisione assume ora toni drammatici: la pronuncia della Corte suprema lascia il futuro presidente, chiunque sia il prescelto, senza un Parlamento eletto e senza una nuova Costituzione (l’assemblea che deve scriverla è stata sciolta perché troppo dominata dagli islamici, e anche dopo la sua ricostituzione segna il passo). I suoi poteri restano indefiniti e non bilanciati dagli altri organi dello Stato, vacanti, mentre all’esercito è stata restituita con l’occasione la facoltà di arrestare e detenere i civili, decaduta alla fine di maggio con l’abrogazione dello stato di emergenza, rimasto in vigore per trent’anni. Di sicuro, il nuovo capo dello Stato avrà di fronte un Paese diviso e instabile, in preda a una dura crisi economica e a un’insicurezza diffusa. Il tramonto dell’era dei “presidenti-faraoni”, autoritari e in carica a vita, sostituiti da statisti che devono rispondere delle loro azioni, sembrava pochi giorni fa a portata di mano. Ora appare molto più distante.

Nelle immagini, dall'alto, Ahmed Shafiq e Mohamed Morsi