Presidente come ha fatto a dimezzare le cause arretrate e ad accorciare i tempi dei processi?
Ho applicato il “Programma di Strasburgo” che ci chiede di arrivare ad una ragionevole durata del processo e migliorare l’efficienza della giustizia. Ero appena stato nominato presidente del Tribunale di Torino, nel 2001 e non era ancora entrata in vigore la legge Pinto, (n. 89/2001 ndr): tuttavia, eravamo in presenza di numerose condanne da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo di Strasburgo nei confronti dell’Italia per la lentezza dei processi. Così decisi di prendere il toro per le corna.
Da dove ha iniziato?
Mi resi conto che prima bisognava dare importanza fondamentale al fattore tempo nella gestione dei processi. Partendo dal contenzioso arretrato, cioè tutte quelle cause pendenti che spesso venivano rinviate e che per vari motivi non si erano concluse. Un processo civile di primo grado, secondo i canoni dettati dalla Corte di Strasburgo, non può durare più di tre anni. Per poter far questo ho preso in esame non solo il numero complessivo dei procedimenti pendenti ma da quanto tempo erano stati iscritti a ruolo. Ho applicato il Programma di Strasburgo che prevede 20 regole pratiche per la gestione delle cause civili di vecchia data per giungere alla drastica riduzione del numero delle cause e dei tempi.
Una sorta di mappatura dei processi?
Si, l’ho chiamata targatura per anno dei processi, una mappatura cronologica per anno. L’operazione è stata gestita con un software Excell con i dati che avevamo e adattando i programmi informatici già in uso agli uffici. Così, insieme a tutti i colleghi del Tribunale civile che all’epoca erano 82 con 8 sezioni più altre 4 sezioni distaccate e al personale delle cancellerie, abbiamo iniziato il censimento per valutare l’anzianità dei processi pendenti. Questa operazione è stata possibile perché è stata ampiamente condivisa e concordata anche con il Consiglio dell’ordine degli avvocati.
Quindi avete iniziato a smaltire l’arretrato dai processi più datati?
Il principio fondamentale era proprio questo: i processi vecchi devono essere esauriti nel più breve tempo possibile. Successivamente abbiamo applicato una metodologia di esaurimento fondata sul principio che la prima causa che è stata iscritta a ruolo deve essere la prima che deve andare a sentenza. E’ una priorità di natura cronologica. Si tratta di un metodo conosciuto nelle teorie di management (e nel mondo aziendale) con l’acronimo inglese FIFO - First In – First Out, che si contrappone al metodo LIFO - Last In – First out. cioé “l’ultima entrata è la prima ad uscire”.
Un principio non certo di pratica comune nella Giustizia...
In effetti, quest’ultimo principio è illogico negli uffici giudiziari, benché molto praticato per la sua apparente rapidità, ma foriero di rischi gravissimi per la legge n. 89/2001 (legge Pinto). Infatti con il metodo LIFO il “vecchio arretrato” diventa sempre più vecchio. Il programma di esaurimento dell’arretrato è stato esteso agli altri 16 tribunali del distretto con un obiettivo immediato consistente nell’ “azzeramento delle cause del secolo scorso” quindi quelle iscritte a ruolo fino al 2000 compreso (il tribunale di Torino, che è il 17°, è da tempo estraneo a tale fenomeno). Progetto che in effetti sta portando alla quasi totale riduzione delle cause vecchie pendenti. In una circolare, la n.1/2011 (leggi il testo integrale) ho chiesto a tutti i presidenti dei tribunali del distretto del Piemonte e Valle d’Aosta di applicare il progetto organizzativo che, recependo le indicazioni della Corte europea, consentiva di smaltire l’arretrato e indicava una serie di suggerimenti su come procedere alla trattazione delle cause civili.
Il modello Torino è una rivoluzione che è coincisa con la riforma del giudice unico nel 1998?
Si, proprio in quel periodo infatti, i giudici vennero divisi in due categorie: i “vecchisti” che trattavano le cause datate e i “nuovisti” che invece si occupavano del contenzioso corrente. Fu così che la precedenza venne data alle cause nuove e quelle vecchie le trattavano in gran parte i Goa (giudici onorari aggregati ndr) che provocarono l’intasamento delle Corti d’Appello (ancora adesso c’è la Cassazione che tratta i ricorsi contro le sentenze dei Goa) Quindi nel 2001 iniziai un processo di razionalizzazione dell’arretrato. I giudici togati, presi dall’entusiasmo di avere in prevalenza cause nuove erano tentati a disinteressarsi delle cause vecchissime. Ho semplicemente invertito il principio: prima trattare le vecchie cause, indipendentemente dal nuovo rito, perché solo così avremmo potuto metterci al riparo dalle condanne dell’Europa e allo stesso tempo smaltire l’enorme arretrato. Così abbiamo iniziato una metodologia di trattazione delle cause vecchie leggermente diversa da quella tradizionale. Da lì ho stilato un decalogo, aggiornando i dati statistici di anno in anno. Da oltre un anno, come presidente della Corte, ho uniformato il metodo per tutti i magistrati del distretto del Piemonte - Valle d’Aosta.
Per esempio?
Faccio due esempi, tra i tanti tratti dal decalogo. Quando gli avvocati delle parti concordemente chiedono un rinvio per trattative in corso chiedendo un rinvio “lungo”, il giudice concede, al contrario, un rinvio brevissimo, convoca le parti e si accerta a che punto sono le trattative. Fatto ciò fissa un’altra udienza a breve per chiudere le trattative e giungere in tempi brevi alla conciliazione o alla sentenza. Altro esempio: quando un consulente tecnico non ha depositato la perizia e sono scaduti i termini, il giudice convoca il consulente concedendo altri 30 giorni entro i quali depositare la perizia. Se non lo fa lo sostituisce. Si tratta di una serie di regole che rappresentano una nuova interpretazione del codice di procedura civile nel quale viene valorizzato il fattore tempo e soprattutto il potere di direzione del processo da parte del giudice previsto dall’art. 175 Cpc. Quindi Decalogo, targatura, priorità e poi la cosa importante è la rilevazione periodica, ogni 6/7 mesi, dei risultati per capire se il programma veniva osservato. I risultati sono stati sorprendenti.
Dal 2010 è presidente della Corte d’Appello di Torino, riesce ad ottenere gli stessi risultati?
Tutti i magistrati seguono lo stesso metodo di lavoro, o ha trovato resistenze?
Anche qui ho esportato lo stesso procedimento adottato in Tribunale, cercando di introdurre nel nuovo ufficio il parametro dei due anni anziché dei tre anni in virtù del quale una causa in Appello non può durare più di due anni, come prevede la Corte europea. Pensi che il distretto della Corte d’Appello di Torino è il quarto distretto in Italia. Qui tutti i magistrati (siamo 72 in Corte d’Appello, più i colleghi dei 17 tribunali in tutto il Piemonte) hanno aderito. E’ un fenomeno che Abravanel, nel suo libro Meritocrazia del 2008, cita come esempio sostenendo che avrei applicato, senza saperlo, nell’ambiente giudiziario la moral suasion e la peer pressure, la pressione dei pari (cioè dei colleghi). Ossia, io non ho mai imposto nulla ai colleghi, né ho fatto pressioni affinché lavorassero con lo stesso metodo per smaltire l’arretrato e diminuire i tempi dei processi, ma ho lasciato piena libertà e autonomia. Pian piano però, anche chi non era d’accordo con il mio metodo di lavoro, per effetto della pressione degli stessi colleghi che invece avevano adottato il nuovo metodo di lavoro, hanno iniziato ad uniformarsi.
Le relazioni annuali sull’efficienza degli uffici quindi danno riscontri positivi in tutto il distretto del Piemonte. Cominciano a darli su un territorio molto vasto. Questa metodologia di tipo aziendalistico con il controllo delle prestazioni fra realtà parallele, con i 16 tribunali minori, un grande tribunale (Torino) e l’ufficio centrale della Corte, consente di censire comparativamente tutte le cause civili e di verificare l’andamento complessivo e anche settore per settore. E’ una sorta di benchmarking giudiziario di cui ho parlato, esponendone i risultati, nel cap. 4 della mia relazione del 28 gennaio 2012 in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario (ved. www.giustizia.piemonte.it, link “stato della giustizia nel distretto”). I dirigenti degli uffici sono giustamente in sana competizione tra loro e i risultati si vedono.
Quali sono i punti critici del decalogo e del “metodo Barbuto”?
Il metodo funziona quando tutti lo applicano. All’inizio ci sono stati alcuni colleghi che lo hanno criticato perché ritenevano che una giustizia troppo celere poteva diventare una giustizia sommaria, di scarsa qualità. Così ho cercato di far comprendere, anche attraverso un’indagine di due ricercatori, Leonardi e Rancan, ( La giustizia rapida è anche di qualità, del 2009, reperibile nel sito www.lavoce.info) che la brevità di un processo non significa processi meno accurati, anzi. Un’altra critica riguarda la non esportabilità del programma Strasburgo in altri contesti perché mancherebbe il buon rapporto con gli Ordini forensi che c’è invece qui a Torino. Ho fronteggiato altre obiezioni: alcuni magistrati ritengono che non spetti a noi risolvere le problematiche del sistema giustizia, ma alla politica, o al governo. Ho replicato che siamo proprio noi magistrati che possiamo fare molto per la buona amministrazione della Giustizia e dobbiamo farlo per primi. C’è chi sostiene, erroneamente, che non possiamo farci carico delle disfunzioni provocate da altri mentre io sostengo che è nostro dovere fare del nostro meglio anche perché lavorare con metodo e vedere i risultati è anche più piacevole.
Le cancellerie però con questo metodo sono ancor più gravate da un’ulteriore mole di lavoro. Come ha affrontato il problema?
Nel 2001/2002 esistevano accordi sindacali che prevedevano un “premio di produttività” sui risultati ottenuti nei c.d. “progetti finalizzati”. Per i cancellieri e il personale amministrativo del Tribunale utilizzavamo all’inizio questo premio in denaro in modo proporzionale ai risultati raggiunti per ogni sezione. In base alla percentuale di miglioramento della durata dei processi e della riduzione dell’arretrato si distribuiva la somma. Fu un esperimento innovativo che è continuato anche dopo l’abolizione del premio di produzione. All’inizio c’è stata un po’ di delusione ma poi tutti hanno compreso che quando si ottengono i risultati si lavora anche meglio e così l’esperimento è proseguito. Nell’arco di 9 anni ci sono state due ispezioni ordinarie che hanno rilevato come il personale aveva dato il meglio di sé ed era ampiamente motivato anche a seguito dei risultati ottenuti. Ora il sistema degli incentivi é parzialmente diverso e prevede dei premi molto esigui desunti dal Fua (Fondo unico dell’amministrazione) in base agli obiettivi raggiunti. E’ di più difficile applicazione per la presenza di obiettivi urgenti di altra natura, legati soprattutto alle esigenze amministrative.
Il magistrato deve anche essere un po’ manager?
Quando si parla della capacità manageriale nell’amministrazione della giustizia molti colleghi inorridiscono perché sostengono di non essere preparati alla gestione manageriale della Giustizia. Secondo me invece, come ho avuto modo di dire anche nel corso di alcuni incontri al Csm, i capi degli uffici giudiziari sono dei dirigenti e se non siamo in grado di formare magistrati dirigenti che sappiano amministrare la giustizia con competenza anche dal punto di vista manageriale, ci ritroveremo presto come nella sanità dove i medici e le strutture sono gestite da manager che non sono medici ma amministratori. Anche perché, vede, ciò che è stato fatto qui a Torino e che continuiamo a fare con la mappatura dei processi, le priorità, la programmazione ecc…è contenuto nell’art. 37 del decreto-legge 98/2011 (la legge sulla stabilizzazione finanziaria) secondo cui tutti i capi degli uffici giudiziari in tutta Italia debbano fare ogni anno il programma di gestione dei procedimenti civili, di riduzione della durata e riduzione dell’arretrato, utilizzando la tecnica della programmazione degli obiettivi. Una sorta di legificazione della tecnica adottata qui a Torino fin dal 2001.
Un magistrato dovrebbe agire come se dirigesse un’azienda?
La giustizia non è un’azienda in senso giuridico ma lo siamo in senso strutturale. L’azienda commerciale produce profitti, ma l’azienda in senso universale è una struttura organizzata che attraverso le risorse umane e quelle materiali deve dare il meglio di sé per perseguire un interesse che abbia una rilevanza sociale. Per questo bisogna imparare le tecniche di gestione e noi magistrati non possiamo sottrarci da questo compito. Al collega-dirigente che si lamenta del fatto che non è più in grado di garantire una seria amministrazione della giustizia per carenza di risorse consiglio di scegliere altri percorsi professionali, perché le risorse sono scarse dappertutto ed è difficile sperare in miglioramenti in tempi rapidi.
Concretamente ora quanto dura un processo in Corte d’Appello a Torino?
Riusciamo a contenere la durata di un processo nell’ambito dei due anni, nella maggior parte dei casi. Vi sono dei casi di sforamento ma sono sempre sotto controllo ed hanno sempre delle motivazioni. In un caso, molto grave perché reiterato e quasi cronico, è stato attivato un procedimento disciplinare a carico del responsabile.
Anche nel rito del lavoro?
Ancora meglio: pensi che in tribunale per i tempi di trattazione per anni siamo stati al primo posto in Italia perché le cause duravano meno di un anno. Nella mia relazione del 28 gennaio 2012 (al cap. 4) ho menzionato, come esempio, la vicenda della Fiom/Fiat, di grande impatto mediatico. Il ricorso fu presentato il 18 aprile 2011 e la sentenza è stata emessa il 14 settembre 2011, cinque mesi dopo. Inutile sottolineare la complessità delle questioni trattate. In Appello i tempi sono molto rapidi. Il Presidente della sezione Lavoro mi ha comunicato che nel 2011, nonostante i vuoti di organico, i ricorsi venivano fissati “entro il limiti di un anno” e in 6/7 mesi per le cause urgenti e per i licenziamenti, e che nel 90% dei casi i ricorsi erano esauriti entro l’anno. Ma la cosa più gratificane è che nel 2011 su 157 ricorsi in Cassazione per cause non seriali e su 286 ricorsi per cause seriali, vi è stata una sentenza di annullamento della Suprema Corte, rispettivamente, in 19 casi (12%) e in 50 casi (17%). Vuol dire che il tasso di “resistenza” delle nostre sentenze è stato molto alto. Una conferma che la giustizia rapida non ha pregiudicato la qualità.
Sembra proprio che il modello Torino sia all’avanguardia nell’amministrazione della Giustizia. Non accusate neanche carenze di aule come accade, per esempio a Roma dove in Corte d’Appello sezione lavoro, c’è una sola aula per 5 sezioni?
No, qui a Torino il palazzo di giustizia (inaugurato nel 2001) è capiente e ogni collegio ha una sua aula riservata e celebra udienza quando vuole, anche il sabato. I giudici monocratici civili spesso tengono udienza nel proprio ufficio.
Presidente, se il modello organizzativo che ha consentito di raggiungere risultati così lusinghieri a Torino e in Piemonte, venisse adottato negli altri uffici giudiziari italiani, consentirebbe di risolvere molti dei problemi della Giustizia. E’ possibile, mutatis mutandis, esportarlo?
Perché non viene applicato negli altri uffici giudiziari? Mi risulta che in molti uffici non piemontesi (non mi chieda quali) i capi degli uffici ci provano ad applicare, almeno in parte, il nostro metodo, soprattutto per la targatura dell’arretrato e per l’adozione dei c.d. “protocolli di udienza” concordati con gli avvocati. Ma le realtà territoriali sono tante ed è impensabile un progetto omogeneo. Mi consola una notizia recente. In un documento del 4 maggio 2012 il CSM, nel censire i progetti organizzativi ex art. 37 D.L. n. 98/2011 (147 progetti pervenuti su un totale di 224 uffici) scrive testualmente: «molti dei programmi esaminati si basano sul censimento dei fascicoli risalenti e su una concordata gestione spedita del procedimento, sul modello del c.d. Progetto Strasburgo, un modello organizzativo partecipato che si snoda attraverso varie fasi: censimento delle cause ultratriennali, targatura, pianificazione e crono programma, monitoraggio». E’ l’inizio dell’esportazione o dell’importazione? Francamente non lo so. Io ho quasi 70 anni, ho pochi anni di lavoro davanti a me. Il mio interesse attuale è l’import/export in Piemonte-Valle d’Aosta, il quarto distretto italiano in ordine di grandezza.
FdJ