Il punto di vista


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La storia non è finita: la lotta delle classi è reale

Gallino: il problema è la mancata dialettica davos_proteste_296

di Massimiliano Piacentini

Giornali, tv, quasi tutti i politici, diversi sindacalisti e docenti universitari ci ripetono ogni giorno che il problema dell’Ue è il debito pubblico; che il buco del bilancio statale è dovuto alle pensioni; che per creare occupazione bisogna facilitare i licenziamenti; che il privato è più efficiente del pubblico e che dunque bisogna privatizzare tutti i settori; che la globalizzazione richiede moderazione salariale e che le classi sociali non esistono più. Simili idee, che rappresenterebbero l'essenza stessa della modernità, godono di una “totalitaria unanimità”, ma sono confutate “dai centri studi di mezzo mondo” e dalla realtà stessa. Così il libro-intervista a Luciano Gallino, La lotta di classe Dopo la lotta di classe, a cura di Paola Borgna, Bari 2012.

Ciò che l’ideologia vincente, il neoliberalismo, dipinge come il migliore dei mondi possibili è invece colmo di contraddizioni: il presente mostra “masse immense di capitale alla ricerca forsennata di un impiego redditizio”, mentre un gran numero “di individui disoccupati” cerca un lavoro “ragionevolmente retribuito e stabile”. Nonostante il sipario ideologico calato per occultare classi, interessi e conflitti conseguenti, dopo la lotta di classe resta la lotta di classe.

Oggi assistiamo essenzialmente all’azione delle élites dominanti contro operai, lavoratori dipendenti e ceto medio. Una lotta alla riconquista dei privilegi limitatamente perduti dalla fine del secondo conflitto mondiale agli inizi degli anni ’80. Un periodo in cui “la classe operaia, e più in generale la classe dei lavoratori dipendenti (…) ha ottenuto, in parte con le sue lotte, in parte per motivi geopolitici, miglioramenti importanti della propria condizione sociale”: lavoro stabile, aumento dei salari reali, riduzione degli orari di lavoro, sistemi di assistenza e previdenza pubblici, “diritti dei lavoratori ad essere trattati come persone e non come merci”.

Secondo Gallino, professore emerito all’Università di Torino ed esperto dei processi produttivi, “i proprietari di grandi patrimoni, i top manager, ossia gli alti dirigenti dell'industria e del sistema finanziario, i politici di primo piano (…), i grandi proprietari terrieri” compongono la “classe capitalistica transnazionale”, la cui offensiva, iniziata negli anni '80, è oggi pienamente dispiegata. Anche tenendo conto delle peculiarità dei diversi paesi, si tratta di una classe che si è mondializzata, che esiste sia come oggetto “in sé”, sia come soggetto “per sé”, e che ha sviluppato il neoliberalismo come teoria generale e come potente arma ideologica.

La sua composizione non differisce molto “da quella che dominava l'economia americana, tedesca o inglese agli inizi del Novecento o addirittura alla fine dell'Ottocento”. Ovviamente ci sono novità. Ad esempio, negli ultimi 30-40 anni hanno fatto ingresso nel sistema finanziario “decine di trilioni di dollari o di euro, che per almeno l'80% rappresentano risparmi delle classi lavoratrici” gestiti da “capitalisti per procura”, cioè “dai dirigenti dei cosiddetti investitori istituzionali: fondi pensione, fondi comuni di investimento, compagnie di assicurazione e altri”, i quali esercitano un grande potere e oggi fanno parte della classe dominante. “Capitale del lavoro” divenuto arma potenziale contro i suoi proprietari, cioè i lavoratori.

Poi ci sono i “perdenti”, coloro che appartengono alla weberiana “comunità di destino” dei lavoratori alle dipendenze. Una classe che non solo non è scomparsa come ci è stato raccontato negli ultimi decenni, ma che è cresciuta numericamente. Si stima che il proletariato globale “abbia superato il miliardo e mezzo”. Persone “alle dipendenze di migliaia di imprese transnazionali e nazionali” nei paesi emergenti o anche in Russia o Brasile, le cui condizioni “ricordano da vicino quelle del proletariato industriale di metà dell’Ottocento”. Problematico il confronto con “il mezzo miliardo di lavoratori dei paesi benestanti”. Questa classe esiste solo oggettivamente (è in sé), ma non ha sviluppato un soggetto (non è per sé) che ne rappresenti unitariamente e politicamente gli interessi. Questa situazione è alla base dell’assenza del confronto dialettico e fa sì che oggi la lotta di classe sia diretta prevalentemente dall’alto verso il basso.