di Rodolfo Fellini
Domenica va in scena il terzo e penultimo atto della lunga cavalcata elettorale che fin qui ha portato François Hollande alla presidenza della Francia. L’inquilino dell’Eliseo, eletto il mese scorso ma oggi senza una maggioranza parlamentare, saprà se e in quale misura i cittadini asseconderanno le sue scelte. Dal 2000, quando il mandato presidenziale fu portato da 7 a 5 anni e armonizzato con quello parlamentare, la Francia ha organizzato la propria vita democratica in 4 momenti: tra aprile e maggio, le presidenziali a doppio turno, a giugno le politiche, sempre a doppio turno. La riforma fece anteporre le elezioni presidenziali alle politiche per far sì che gli elettori, sulle ali dell’entusiasmo per la recente proclamazione del nuovo capo dello Stato, decidano di premiarlo con una maggioranza congrua. In effetti, dall’introduzione del nuovo sistema, il Parlamento scaturito dal voto di giugno è sempre stato dello stesso colore del presidente eletto a maggio.
Le elezioni politiche mettono in palio i 557 seggi dell’Assemblea nazionale, la Camera bassa del Parlamento, che assieme al presidente determina la politica del Paese. Il Senato federale, già abbondantemente in mano ai socialisti, ha infatti un ruolo marginale nella genesi delle leggi. Il sistema elettorale si articola in collegi uninominali maggioritari a due turni. Nelle circoscrizioni in cui domenica nessun candidato riuscirà a conquistare il 50% più uno dei voti, tutti coloro che avranno ottenuto almeno il 12,5% delle preferenze affronteranno un turno di ballottaggio, fissato per domenica 17. Si tratta del cosiddetto sistema delle “triangolazioni”, o delle “quadrangolazioni”, in quanto è già capitato che al secondo turno siano approdati 4 candidati. Determinante, nella settimana che intercorre tra il primo e il secondo turno, saranno le eventuali alleanze e i patti di desistenza tra candidati di una stessa famiglia politica.
Un curioso rapporto di forze
Nel complesso, l’opinione pubblica francese resta saldamente orientata a destra. Le elezioni presidenziali sono state più perse da Nicolas Sarkozy che vinte da François Hollande, e se oggi la destra si presentasse compatta all’appuntamento con le urne potrebbe anche superare il 50%, mentre l’intera sinistra si ferma ineluttabilmente al 46-47%. Perciò i socialisti chiamano a raccolta i propri elettori, scongiurandoli di rafforzare il presidente e accorrere massicciamente alle urne. Da quando si tengono con scadenze così ravvicinate, le elezioni presidenziali hanno sempre avuto un richiamo maggiore rispetto alle politiche. Le stime, per domenica, prevedono un’affluenza intorno al 60%, rispetto all’80% registrato nei due turni che hanno incoronato Hollande.
La destra, che ha perso le presidenziali con Sarkozy ma si è affermata nelle sue frange più estreme con Marine Le Pen, si presenta all’appuntamento con le stesse divisioni messe in mostra durante il voto per l’Eliseo. I moderati dell’Ump, dopo il ritiro a vita privata dell’ex presidente, non hanno più un vero capo, e Marine Le Pen mira a sfruttare il loro momento di debolezza per continuare la sua personale scalata alla leadership dell’intera destra. I tempi perché la sua impresa possa riuscire non sembrano maturi: il Fronte Nazionale, oggi senza rappresentanza all’Assemblea nazionale, può puntare al massimo a cinque o sei seggi nei suoi tradizionali feudi del Sud. Ma l’ipotetico approdo al ballottaggio dei candidati di Le Pen in una trentina di collegi sarebbe già un ottimo risultato, nonché un campanello d’allarme per gli orfani di Sarkozy, impegnati a ricostruire il partito dopo dieci anni difficili trascorsi al governo.
La sinistra, come già accaduto per le presidenziali, si reca alle urne più compatta, in virtù delle intese siglate diversi mesi fa tra i vari partiti. I socialisti di Hollande sono, ovviamente, la forza trainante ma secondo i sondaggi non riusciranno a conquistare la maggioranza assoluta dei seggi; per governare, saranno dunque costretti a stringere alleanze con i comunisti di Mélenchon e con gli ambientalisti di Eva Joly. La maggioranza di 289 seggi appare lontana per gli uomini di Hollande, cui gli istituti demoscopici assegnano da 250 a 290 deputati. L’estrema sinistra dovrebbe conquistare da 21 a 23 seggi, e i Verdi da 17 a 23. La necessità delle alleanze avrà come risultato un governo forse più radicato ideologicamente a sinistra di quanto non vorrebbe lo stesso Hollande, specie per quanto riguarda temi come l’energia e l’ambiente. L’ipotesi di coabitazione tra un presidente di sinistra e un Parlamento di destra sembrerebbe comunque scongiurata dai sondaggi.
L’estrema destra, comprimaria suo malgrado
Sono poche le circoscrizioni in cui già domenica sera si conoscerà il nome dell’eletto. Si tratta per lo più dei feudi “storici” della sinistra, nel Nord operaio o nel Centro contadino, o di quelli della destra, in Alsazia, Borgogna e nel Sud. In gran parte dei collegi si andrà ai ballottaggi tra due candidati, ma in una cinquantina saranno in più di due ad approdare al secondo turno. E proprio queste circoscrizioni finiranno di delineare la maggioranza parlamentare. Nei collegi in cui gli uomini di Marine Le Pen saranno in lizza, è prevedibile che i candidati della sinistra siano favoriti, in virtù di un maggiore astensionismo dell’elettorato della destra moderata, poco incline ad appoggiare gli estremisti. In altre parole, ancora una volta quel 15-20% di voti cui punta Le Pen sarà forse inutile in termini pratici, ma politicamente sempre molto significativo. Alle presidenziali, sia Hollande sia Sarkozy si erano impegnati a modificare il sistema elettorale in chiave proporzionale. La persistente minaccia di un Fronte Nazionale che proprio l’attuale sistema rende tutto sommato innocuo lascia pensare che nei prossimi cinque anni potranno cambiare molte cose, ma non la legge elettorale.