In memoria di Falcone e Borsellino


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Una guerra mai finita

Venti anni dopo la strage di Capaci: la verità giudiziaria con 24 ergastoli. Ma Spatuzza decide di parlare e si deve riscrivere il capitolo della strage di Via d’Amelio dove morì Borsellino e 5 agenti di scorta f

di Fabrizio de Jorio

La vita del giudice Giovanni Falcone, di sua moglie, Francesca Morvillo e quella degli agenti di scorta, Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani si interrompe alle 17,56 minuti e 48 secondi del 23 maggio 1992. Erano scesi dall’aereo che li aveva portati a Palermo, all’aeroporto di Punta Raisi. Sono andati incontro alla morte per mano della mafia che con 500 chilogrammi di tritolo piazzati sotto un tombino dell’Autostrada A29, all’altezza dello svincolo Capaci, ha voluto uccidere uno dei servitori dello Stato che aveva portato alla sbarra e fatto condannare oltre 400 mafiosi al Maxi processo di Palermo.

Riina, durante il vertice della cupola, decise le stragi e l’attacco allo Stato
Rispondeva a una finalità "politica" la strategia che scatenò l'attacco di Cosa nostra allo Stato, culminato con le stragi del 1992 dove persero la vita gli agenti di scorta e i due giudici antimafia, Falcone e Borsellino. Il senso di quel piano di morte lo dettò durante il vertice della cupola mafiosa, il boss Totò Riina: "Bisogna fare prima la guerra per fare poi la pace". Fu così decisa l’eliminazione dei due giudici antimafia.

La testimonianza di Giovanni Brusca viene accolta dalla Cassazione che, dopo sette processi, ha confermato le condanne dei vertici di Cosa nostra per la strage di Capaci. Ma in quelle pagine non si trova tutta la verità. Restano nell'ombra una parte delle responsabilità operative, che il pentito Gaspare Spatuzza ha fatto emergere, ma anche il ruolo di apparati investigativi e pezzi dello Stato che avrebbero tenuto aperto un canale di "dialogo" con i boss offrendo una copertura in vista di una tregua. Il famoso “papello”, cioè i presunti tentativi di accordo, una sorta di trattativa tra elementi di Cosa Nostra e pubblici ufficiali dello Stato del quale ha parlato il figlio di Ciancimino. Questo è il campo inesplorato nel quale si stanno inoltrando le nuove indagini sulla morte di Giovanni Falcone che incrociano quelle sulla "trattativa".

Lari: dopo le dichiarazioni di Spatuzza e Tranchina emerge il ruolo del mandamento di Brancaccio in entrambe le stragi di Capaci e Via d’Amelio
Il livello operativo della strage di Capaci è stato sufficientemente chiarito sin dal primo processo concluso il 26 settembre 1997 con 24 ergastoli e pene inferiori per i collaboratori Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante, Gioacchino La Barbera, Calogero Ganci e Mario Santo Di Matteo. In appello si aggiunsero altre cinque ergastoli ma dopo due annullamenti seguiti da altri due giudizi di appello, la Cassazione chiuse i filoni processuali per la strage di Capaci il 16 settembre 2008. Resta accertata la responsabilità di Totò Riina, Bernardo Provenzano, Francesco e Giuseppe Madonia, Pippo Calò, Pietro Aglieri e degli altri componenti della "cupola". Da un anno Gaspare Spatuzza sta offrendo ulteriori elementi sulla preparazione e sull'organizzazione dell' attentato. Ma soprattutto sull'esplosivo che, su incarico di Alfonso "Fifetto" Cannella, avrebbe recuperato a Porticello, vicino a Palermo, da fusti legati alle paratie di un peschereccio.

Tuttavia, secondo Sergio Lari, procuratore di Caltanissetta che coordina le indagini sulle stragi del 1992, emerge "uno stesso mandamento, sia per la strage di via d'Amelio che per quella di Capaci. Dalle dichiarazioni di Spatuzza e Tranchina emerge un ruolo del mandamento di Brancaccio in entrambe le stragi e questo è un elemento investigativo nuovo. Nelle precedenti indagini, questo era passato inosservato".

L'utilizzo dell'esplosivo venne deciso come variante spettacolare di un piano che all'inizio prevedeva l' uccisione di Falcone a Roma. Ne ha parlato l'ultimo pentito Fabio Tranchina che sa molte cose anche sull'attentato di via D'Amelio. Il "gruppo di fuoco" che doveva eliminare Falcone era partito dalla Sicilia su un corteo di auto guidato dal boss Matteo Messina Denaro, non ancora latitante. "Ma all'improvviso - ha raccontato Tranchina - giunse l'ordine di tornare indietro. Bisognava uccidere Falcone a Palermo in modo eclatante". In quel momento agli strateghi di Cosa nostra l'inferno sull' autostrada appariva come il passaggio cruciale del grande ricatto allo Stato. Serviva ad alzare il prezzo della "trattativa" che, secondo quanto ipotizzano i magistrati di Palermo e di Caltanissetta, era già stata avviata. Ma chi teneva i fili di quel "dialogo" non aveva fatto i conti con Paolo Borsellino: aveva avuto una precisa percezione di quanto si stava tramando e per questo appariva turbato con i colleghi ma anche con la moglie. Era ormai diventato un ostacolo scomodo e pericoloso per tutti. Per questo la sua eliminazione, che pure rientrava nella strategia "bellica" più generale, venne accelerata.