di Valerio Ruggiero
Per la prima volta in sessant’anni l’Egitto ha l’opportunità di scegliere un presidente che non provenga dai vertici delle Forze armate. Le elezioni del 23 e 24 maggio per designare il successore di Hosni Mubarak, travolto dalla Rivoluzione e deposto nel febbraio dello scorso anno dopo tre decenni di potere, sembrano poter rappresentare una svolta nel faticoso cammino del Paese verso la democrazia.
Da 15 mesi, l’Egitto è governato dal Consiglio supremo delle Forze armate guidato dal feldmaresciallo Mohamed Hussein Tantawi. I militari hanno promesso di cedere il potere, entro giugno, a un presidente regolarmente eletto. Il voto, e il quasi certo ballottaggio del 16 e 17 giugno, rappresentano dunque uno spartiacque tra un regime politico fondato sull’autoritarismo di un “presidente-faraone”, espresso e sostenuto dalle Forze armate, e un sistema democratico, con il governo affidato ai civili. Sempre che le promesse vengano mantenute.
Non sono stati mesi facili per gli egiziani. Dopo il sangue versato nella Rivoluzione del gennaio-febbraio 2011, spesso i manifestanti sono tornati a protestare in Piazza Tahir, al Cairo, contro il governo dei militari e per rilanciare le speranze e gli ideali apparentemente traditi. La grave crisi economica, legata tra l’altro al crollo del turismo, e l’insicurezza diffusa soprattutto nelle zone rurali hanno però alienato ai rivoluzionari gran parte delle simpatie popolari. Se al Cairo si discute del peso dell’Islam sullo Stato o si esaminano i rischi del ritorno al potere di figure compromesse con il vecchio regime, nelle campagne le priorità sono ben altre: gli approvvigionamenti alimentari e di energia, il funzionamento dei servizi di base, la stabilità, la sicurezza, lo sviluppo economico di una popolazione ancora più povera di quando era governata con il pugno di ferro da Mubarak. Per questo, al di là della indeterminatezza dei loro programmi politici di fronte alle cruciali emergenze sociali, i candidati legati all’ex regime, Amr Moussa e Ahmed Shafiq, con il 16% circa dei consensi sono in testa nei sondaggi: rappresentano agli occhi di molti una garanzia di stabilità e ordine più apprezzata delle libertà e dei diritti civili.
Ma non dobbiamo dimenticare che nei mesi scorsi l’Egitto ha già votato per il nuovo Parlamento democratico. Il grande successo delle forze islamiche – i partiti legati alla Fratellanza musulmana, più moderata, e al movimento salafita, più radicale, controllano il 70% circa dei seggi – rafforza le speranze di vittoria dei candidati islamici Abdel Moneim Abul Fotouh e Mohamed Morsi, attualmente stimati intorno al 10-13% al primo turno. Tuttavia, un terzo degli egiziani risulta ancora indeciso, e i due candidati sembrano guadagnare terreno: la gara non potrebbe essere più aperta.
Le forze rivoluzionarie, laiche, di sinistra e liberali, sconfitte nel voto parlamentare, appaiono invece irrimediabilmente tagliate fuori anche da un successo alle presidenziali: divise tra loro ben più di quanto lo sia l’elettorato islamico, in pratica non hanno candidati competitivi. L’avvocato e attivista Khaled Ali, che forse meglio di ogni altro incarna le istanze della Rivoluzione, sembra avere un seguito modesto. Solo leggermente migliore la situazione per il nasseriano (socialista-nazionalista) Hamdeen Sabbahi. Questi movimenti si stanno dunque già concentrando sull’agenda da proporre al nuovo presidente, chiunque egli sia, per scongiurare un ritorno al passato autoritario o un futuro politico e sociale pesantemente condizionato dalle istanze religiose, già maggioritarie in Parlamento. E lo scontro tra laici e islamici, che di fatto ha paralizzato la scrittura della nuova Costituzione, è un segnale inequivocabile delle forti tensioni che attraversano l’Egitto del dopo Mubarak.
Le presidenziali di questi giorni segnano comunque, al di là del loro esito, una forte discontinuità nella vita politica egiziana, per decenni dominata da elezioni a candidato unico o, più di recente, fortemente condizionate da pressioni e brogli. Per la prima volta nella storia, le tv hanno trasmesso inediti e seguitissimi confronti tra i candidati, e la gente parla liberamente di politica in pubblico oltre che nel privato. Soprattutto nei centri rurali, la fedeltà alla tribù o ai notabili del luogo continuerà inevitabilmente ad avere un forte peso sulle scelte degli elettori; ma il ruolo chiesto oggi all’Egitto sarà ancora una volta – come per il trattato di pace con Israele nel 1979 – quello di indicare la strada del cambiamento a tutto il mondo arabo.