di Emanuela Gialli
L’attesa è un concetto filosofico che sta a indicare l’esigenza di aspettare il compimento del processo di consapevolezza dell’essere. Eduardo De Filippo l’ha magistralmente sintetizzata nella frase pronunciata dal protagonista di “Napoli milionaria”, Gennaro: “S’ha da aspetta’. Ha da passa’ ‘a nuttata”. Gennaro era tornato, a guerra finita, dalla sua famiglia, ma l’aveva trovata impoverita nei valori. E’ un’analogia letteraria, che serve forse a descrivere la situazione in cui si trova oggi l’Italia, sospesa tra azione e attesa. Dopo il rigore, la crescita, è infatti l’imperativo di tutte le forze politiche italiane. E la crescita è legata al lavoro, degli occupati e delle imprese, oltre che ai consumi. Anche le banche intervengono in questo processo.
Proprio intorno a questi soggetti e temi si svolgerà a Trento, dal 31 maggio al 3 giugno, il Festival dell’Economica, centrato in particolare sul ruolo delle giovani generazioni. Tra interventi concreti e dibattiti, si attende il “turning point” , il punto di svolta per rilanciare l’economia italiana.
Professor Boeri, Come giudica la riforma del lavoro?
Penso che abbia diversi limiti, perché è una riforma molto ambiziosa, per certi aspetti fin troppo, e alla fine rischia di essere poco efficace. Il problema più serio è che non mette in piedi un vero e proprio canale di credito nel mercato del lavoro, verso cui indirizzare quelle persone che oggi sono nei contratti temporanei e nel parasubordinato. Trovo che sia giusta l’idea di rendere più difficile l’utilizzo di queste figure contrattuali, anche se non sempre quello che si fa è del tutto efficace. A fronte di questo, bisognerebbe creare un nuovo percorso di credito nel mercato del lavoro verso cui incanalare questi lavoratori. E questo purtroppo la riforma non lo fa. L’unica cosa che fa è investire sul contratto di apprendistato, che peraltro esiste già e quindi non è una grande innovazione nel nostro ordinamento.
E’ anche vero che eventuali innovazioni radicali non sarebbero ben viste dai sindacati. Secondo lei le organizzazioni dei lavoratori dovrebbero modificare il loro modo di affrontare i problemi del mercato del lavoro, forse ancora riferite alle politiche sindacali degli anni Settanta?
I sindacati rappresentato molto di più i lavoratori che hanno contratti a tempo indeterminato piuttosto che i lavoratori temporanei, anche se qualche sforzo per tenere conto di queste realtà lo hanno fatto. Credo che di fronte a proposte coraggiose, il sindacato avrebbe incontrato delle difficoltà, perché è consapevole di avere questo problema. Non può ignorare che ormai c’è una fetta consistente della forza lavoro che è in queste condizioni, soprattutto i lavoratori più giovani che entrano solo in quel modo nel mercato del lavoro.
Da una parte dunque i giovani che non entrano nel mondo del lavoro e dall’altra i lavoratori dipendenti, soprattutto a tempo indeterminato, che sono guardati con un po’ di invidia, sono ritenuti fortunati, perché hanno un lavoro e possono chiedere prestiti e mutui. Tra l’altro, insieme ai pensionati, sono quelli che garantiscono un certo gettito fiscale. E’ così? C’è realmente questa competizione?
I lavoratori dipendenti, non c’è dubbio, sono quelli che garantiscono la stragrande maggioranza del gettito dell’Irpef , in generale. Ed è vero che per il reddito che percepiscono possono chiedere ed ottenere linee di credito, mentre i dipendenti a tempo determinato fanno fatica ad avere dei prestiti.
Secondo lei, professor Boeri, le banche che ruolo svolgono in questo momento?
Le banche indubbiamente hanno una funzione molto importante: dovrebbero cercare di fare arrivare del credito alle famiglie e alle imprese. Purtroppo ci sono invece grossi ritardi. Le banche troppo spesso tendono a privilegiare l’utilizzo dei fondi, anche di recente concessi dalla Banca Centrale Europea, per acquistare titoli di Stato piuttosto che per far affluire credito alle famiglie e alle imprese. Questo ovviamente ha dei costi sociali elevati. Noi stiamo parlando dei problemi per i giovani a entrare nel mondo del lavoro e va benissimo, è giusto. Ma non dimentichiamo che vi sono anche gli anziani che hanno problemi di liquidità. Abbiamo famiglie, persone, che hanno investito tutti i loro risparmi in una casa e che ora assistono, da una parte alla perdita di valore dell’immobile, e dall’altra hanno un bene che è poco liquido, che non riescono a vendere. In più hanno problemi di reddito. Quindi sono ricchi, sul piano patrimoniale, ma hanno difficoltà ad arrivare alla fine del mese. In questi casi le banche dovrebbero concedere prestiti, avendo come garanzia la casa di proprietà. Potrebbero essere anche le assicurazioni a dare una copertura assicurativa a queste persone prendendo come garanzia la casa di proprietà.
Lei sta dicendo che con i prestiti alle famiglie i consumi salirebbero?
I prestiti non servirebbero a far aumentare i consumi, ma a permettere a queste famiglie , a queste persone, di avere un’esistenza più dignitosa . Sono persone che hanno lavorato tutta una vita, che hanno fatto dei risparmi e che adesso, paradossalmente, si trovano in condizioni di disagio. Sarebbe un modo per farli stare un po’ meglio.
Si può intervenire sulle banche e se sì in che modo?
Bisognerebbe spingere maggiormente le banche a erogare i prestiti alle imprese. Da questo punto di vista, naturalmente, non può essere il governo a decidere e non può essere il governo a imporlo alle banche. Quello che bisognerebbe fare è cercare di aumentare la concorrenza del sistema bancario, rompere quegli intrecci che ci sono con la grande impresa, che fanno sì che spesso le banche concedano credito a condizioni molto vantaggiose soltanto a grandi imprese che sono magari partecipate dalle banche stesse. Di fatto uniscono al rischio di credito quello della partecipazione alla capacità di rischio di queste imprese. Alla fine danno soldi e credito a queste imprese dimenticandosi delle piccole imprese e delle famiglie. Su questo credo che il governo dovrebbe intervenire.
In questo periodo, il numero dei suicidi di piccoli imprenditori è preoccupante ed è in salita , anche tra i meno abbienti. Un’obiezione che si potrebbe fare è perché in tempo di guerra, nonostante mancasse addirittura il cibo, le persone restavano legate alla vita e facevano del tutto per sopravvivere? Cosa è cambiato nell’approccio con le difficoltà materiali dell’esistenza umana?
Effettivamente i dati sui suicidi sono allarmanti. Sembra che siano legati sia alla disoccupazione che a problemi di debiti. Un tentativo di interpretazione, che non si basa su alcun riscontro empirico, dunque le prenda come congettura, è che forse in periodo di guerra c’è la consapevolezza del fatto che è una crisi temporanea, si pensa che un giorno finirà. La guerra è uno shock temporaneo e invece le persone che si tolgono la vita in questo momento probabilmente ritengono che, avendo accumulato debiti elevati e non riuscendo più a ripagarli, oppure avendo di fronte una situazione del mercato del lavoro così negativa e così difficile, pensano che è un problema che non si risolve, che è destinato a durare nel tempo. Credo che derivi anche dal fatto che non vedono grandi prospettive. E ciò le può portare a scelte pesanti, più pesanti in considerazione dei nostri standard di vita oggi rispetto ai modelli di esistenza di quei tempi . Molti non intravvedono un futuro migliore.
L’Italia ce la farà, secondo lei professor Boeri? Oppure dobbiamo vivere un po’ alla giornata?
No, vivere alla giornata è proprio la cosa sbagliata da fare. Adesso dobbiamo guardare avanti. E’ un compito difficilissimo. Abbiamo delle sfide molto complesse, abbiamo tante cose da fare. Il governo Monti ha iniziato a farne alcune, ne abbiamo tantissime altre da portare avanti. Ma ce la possiamo fare.